Capitolo 6


Ex voto – I figli della Gallia

Arelate, a.d. V Kal. Mai. 872 AUC

Vale, Canio Rufo, cosa ti porta da queste parti? – Egidio Iulio Enobarbo salutò il flamen che si stava dirigendo nella sua direzione; era appena cominciata la terza ora e si trovavano entrambi sotto il porticato che circondava l’ampio spazio lastricato del nuovo tempio dell’Alma Mater.
Vale, Iulio Enobarbo, – rispose il flamen, sorridendo – stavo andando al tesoro del tempio per dedicare un ex voto a Minerva Medica. – Estrasse un oggetto dalla sacca che aveva in spalla: – È un ringraziamento per la rapida e completa guarigione di mio figlio Fausto: si è rotto una gamba venti giorni fa ed è già in giro senza stampella, come se non fosse successo nulla.
L’oggetto in questione era la riproduzione in argento lavorato a sbalzo di una gamba destra, più piccola del reale, completa del piede e perfetta nei minimi dettagli, e con un intarsio d’oro a formare una stretta fascia intorno alla parte centrale del polpaccio.
– Sono contento di sentirtelo dire, mi avevano detto che era stato un brutto incidente…
– È caduto da cavallo. Cose che capitano, purtroppo, ma almeno stavolta è andato tutto a finire bene. In compenso, – aggiunse – stavo approfittando del fatto che sono qui per guardare bene il nuovo tempio; devo ammettere che dal giorno dell’inaugurazione non avevo più avuto occasione di vederlo, e allora c’era troppa folla e confusione per ammirarne a dovere l’architettura. È davvero un’opera bellissima ma…
– Ma… ? – Insistette Egidio leggermente sulla difensiva.
– Scusami, Iulio Enobarbo, non ho certamente intenzione di criticare il tuo splendido tempio. Si tratta di una questione su cui sto riflettendo da un po’ di tempo, e riguarda il nostro concetto di architettura in generale: non hai mai notato come i nostri edifici siano sempre esagerati, in un senso o nell’altro?
– Esagerati come? – Chiese Egidio, un po’ seccato: – Troppo grandi? Troppo sfarzosi?
– No, non è questo che intendo. Ti farò due esempi; guarda il colonnato sotterraneo che sorregge il foro della nostra città, più di cento pilastri e archi; pilastri di pietra compatta larghi alla base tre o quattro piedi: è un’opera colossale, che probabilmente sarà ancora lì tra mille anni, niente potrebbe distruggerla. Poi pensa alle insulae che abbiamo costruito nel quartiere del porto: poca pietra, un po’ di mattoni, molto legno, canne e fango; non passa anno che non ci sia un crollo o un incendio che se ne porti via una o due. Non ti sembra che siano entrambe delle esagerazioni, troppo grandioso il primo, troppo deboli le seconde?
– Non capisco, Canio Rufo, – si lamentò Egidio – è normale che le opere pubbliche siano fatte con maggiore sfarzo e per durare nel tempo, mentre le case del popolo siano costruite con più economia di mezzi.
– Certo, ed è giusto che sia così. Ma la mia impressione è che quelle case siano state costruite con troppa economia, mentre le opere pubbliche siano inutilmente massicce. Certo, non vorrei un foro che dopo dieci anni cade a pezzi, ma perché costruire opere eterne? E, d’altra parte, un’insula un po’ più robusta magari costerebbe il doppio ma durerebbe dieci volte di più: non sarebbe più conveniente?
– E, secondo te, qual è la causa? Megalomania nelle opere pubbliche e avarizia nell’edilizia privata?
– In parte è sicuramente anche questo ma, visto che me lo chiedi, secondo me la causa principale in entrambi i casi è l’ignoranza.
– Ignoranza? – Egidio era incredulo: – Vuoi forse dire che i nostri architetti, gli architetti romani, i migliori del mondo, non sanno costruire una casa?
– Non proprio… – Canio Rufo cercò di riordinare le idee: – Vedi, se bisogna costruire un muro alto trenta piedi, qualunque sciocco è capace di costruirlo solidamente, facendolo largo dieci piedi; e d’altra parte nessuno sarebbe così stupido da sperare di farlo restare su con solo tre pollici di spessore. È chiaro che lo spessore giusto sta da qualche parte tra tre pollici e dieci piedi, ma dove?
– Non lo so, non sono un architetto.
– Il problema è che secondo me non lo sa neanche l’architetto! Se il muro che deve costruire è la parete di un tempio o di una basilica, probabilmente userà uno spessore di quattro o cinque piedi di pietra massiccia, così sarà sicuro della sua resistenza: meglio abbondare che rischiare il disastro. Se invece sta progettando un’insula… Beh, il committente non vuole un opera grandiosa, vuole solo spendere poco; il nostro architetto cercherà quindi di fare la massima economia possibile, un singolo strato di mattoni andrà benissimo, almeno finché il lavoro non è finito e pagato.
– Quindi tu sostieni che i nostri architetti sono degli incompetenti?
– No, come hai detto tu prima, sono i migliori del mondo. E questo significa che nessuno è in grado di determinare qual è lo spessore veramente ideale di un muro.
– E tu ne saresti forse capace? – Lo canzonò Egidio.
– Io? No di certo! – Rise Canio Rufo: – Io non so determinare qual è la larghezza ideale, ma questo non vuol dire che non esista: lo spessore minimo perché il muro sia abbastanza solido, che sarà quindi il valore più funzionale ed economico.
– Ma a cosa serve sapere che esiste, se non possiamo sapere qual è? Sarebbe come sapere che esiste un modo per… che so, per volare come gli uccelli, ma non avere la minima idea di quale sia. Secondo me è una conoscenza peggio che inutile.
– Non è detto, Iulio Enobarbo, non è detto. A volte il solo fatto di sapere che esiste una soluzione a un dato problema è il primo passo per trovarla. Se non altro, sapere che esiste ti dice che vale la pena di cercarla.
– Può darsi, ma visto che non saremo certo noi a trovarla mi sembra un argomento futile. – Egidio non sembrava in realtà molto interessato all’argomento: – Comunque scusami, io adesso devo andare; auguri per la pronta guarigione di tuo figlio, vale.
Vale.


Era appena iniziata la prima vigilia quando Lucio attraversò il ponte galleggiante e si inoltrò nel quartiere del porto.
Il ponte era di per sé una realizzazione notevole: lungo più di cento passi non era costruito in pietra o muratura, ma era formato da più di due dozzine di scafi di barche collegate insieme da un tavolato. Le barche erano ancorate al fondo del fiume e alle due estremità il ponte si collegava a terra mediante passerelle mobili sostenute da coppie di torri gemelle. Questa curiosa struttura permetteva al ponte di resistere alle terribili piene periodiche del Rhodanus e, allo stesso tempo, l’apertura dei segmenti terminali permetteva il passaggio delle imbarcazioni, anche se il traffico non era molto intenso: le navi che provenivano dal mare non erano in genere adatte a risalire il fiume evitandone le secche e le rapide, mentre le basse e larghe chiatte fluviali che mantenevano il commercio con l’interno non tenevano bene il mare. Così la maggior parte delle merci in entrambe le direzioni veniva scaricata al porto nuovo e caricata su altre imbarcazioni al di là del ponte.
Lucio si fermò davanti a una porta chiusa nel vicolo dei sutores, di fianco alla quale stava un’antica erma: un pilastro a base quadrata, di pietra calcarea, alto quanto un uomo. Era scolpito come un blocco perfettamente liscio a parte una testa di Mercurio alla sommità e i genitali alla giusta altezza. Si trattava di un’icona tradizionale di natura scaramantica e bene augurale, molto diffuso in Grecia nei tempi antichi e, più recentemente, nelle province romane.
Lucio sfiorò per tre volte gli attributi della statua, recitando a bassa voce la formula di scongiuro rituale – Tria testicula tacta omnia mala fugavit – e bussò. Dopo pochi istanti si sentì un rumore di passi sull’altro lato della porta e una voce chiese:
– Qual’è il tuo nome?
– Il mio nome è Cingeto. – Rispose Lucio.
– Di chi sei figlio, Cingeto?
– Sono figlio della Gallia.
– E cosa fai tu, Figlio della Gallia?
– Æterno duro!3
Finalmente la porta si aprì e Lucio poté entrare nel locale. Si trattava di una vecchia taberna in disuso, probabilmente occupata in precedenza da un sutor, un calzolaio, almeno a giudicare dall’odore di cuoio che ancora impregnava le pareti.
Seduti su sgabelli e panche improvvisate c’erano già gli altri otto componenti del gruppo; Lucio ricordò a se stesso che qui il suo nome era Cingeto, e che anche dei suoi compagni doveva usare il soprannome, non il vero nome.
Si sedette di fianco a Ambiorix (in realtà il suo amico Marco Canio Rufo; era lui che aveva le chiavi della taberna, che era di proprietà del padre) e gli chiese sottovoce se fosse già stato discusso qualcosa di importante.
– No, Cingeto, siamo tutti appena arrivati, e stavamo per cominciare quando hai bussato alla porta.
– E proprio questo è il problema! – Dumnorix si alzò in piedi per dar maggiore risalto alle sue parole: – Siamo tutti qui. In nove! Cosa pensiamo di fare in nove? Liberare la Gallia dalle legioni romane?
– E quindi cosa proponi di fare? – Era stato Viridomarus a porre la domanda con voce pacata: – Vuoi anche tu, come Andarta, allargare il movimento alle masse? Vuoi forse anche tu che andiamo a cercare l’adesione dei peregrini?
– No, quella sarebbe una sciocchezza. – Rispose prontamente l’altro: – Non so cosa, ma qualcosa dobbiamo fare. Siamo solo in nove e siamo tutti di Arelate, a parte Diviziaco ma che ormai vive qui anche lui. Come possiamo pensare di sollevare la Gallia se continuiamo a discutere tra di noi senza coinvolgere nessun altro?
– Hai ragione Dumnorix, – lo sostenne Diviziaco – questo è il problema centrale e dobbiamo fare qualcosa. Dobbiamo trovare un modo per raggiungere gli altri scontenti in tutta la provincia e metterci in contatto con loro.
– E ritrovarci addosso la guardia del proconsole nel giro di due giorni. – Lo canzonò Viridomarus.
– Potremmo…
– Cosa?
– Non sono sicuro, è un’idea che mi è venuta adesso, magari è una sciocchezza. – Diviziaco era esitante: – Come primo passo dovremmo cercare di far sapere alla Gallia della nostra causa, senza per questo esporci in prima persona.
– Ottima idea, – lo prese in giro Ambiorix – mettiamo un annuncio sul cotidianus: “Cerchiamo cospiratori per partecipare alla liberazione della Gallia dal giogo romano”.
– Non fare l’idiota! – Lo rimbrottò Dumnorix: – A me l’idea di Diviziaco sembra sensata, se solo trovassimo un modo per attuarla.
– D’accordo, se si trova un modo. Ma a me sembra che sia un grosso “se”.
– E se… – Cominciò Cingeto esitante: – E se scrivessimo una breve oratio in forma anonima e la diffondessimo ad Arelate e nelle altre città della provincia?
– E come si fa a diffondere un’oratio in modo anonimo? – Ambiorix era chiaramente ancora scettico, ma il tono era meno supponente di prima.
Imprimendola! – Adesso Cingeto era più sicuro di sé: – Conosco uno che ha una imprimitrice arriana, qui ad Arelate. Non è quello che imprime il Cotidianus Arelatensis, è un altra persona, un librarius; potremmo scrivere l’oratio e fargliela imprimere su scinzi in qualche centinaio di copie, e poi incollarle di notte sui muri della città, in modo che la mattina dopo tutti le possano leggere.
– Mi piace la tua idea, – commentò Diviziaco – potrebbe davvero essere la soluzione giusta.
– È troppo pericoloso: – sentenziò Ambiorix – andare in giro di notte ad incollare manifesti, come puoi sperare che nessuno ci veda?
In girum imus nocte… – Commentò Bituitus che finora non aveva ancora preso la parola.
– Cercheremo di restare lontani dal fuoco. – Commentò seccamente Cingeto.
– … è troppo pericoloso…
– … non possiamo continuare in quattro gatti…
– … il rischio…
– … pensa alla faccia che farà il proconsole
– … voi siete pazzi…
– … però dobbiamo fare qualcosa…
Continuarono così a discutere per più di un’ora. Alla fine, in un modo o nell’altro, riuscirono ad accordarsi su una soluzione di compromesso: Cingeto avrebbe scritto l’oratio, dato che era sicuramente il più ferrato tra di loro nell’arte della retorica, e avrebbe parlato della cosa con il suo amico imprimitore. Però, per il momento, si sarebbe limitato a questo, una decisione definitiva su cosa fare avrebbe dovuto essere presa in una prossima riunione.
Se ne tornarono a casa alla spicciolata e, come abitualmente succede in questi casi, erano tutti moderatamente insoddisfatti delle decisioni prese.


3 Resisto per sempre!

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