Capitolo 9


L’oratio – L’arresto

Arelate, a.d. IIII Non. Iun. 872 AUC

Popolo della Gallia,
fino a che punto il proconsole approfitterà della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora la sua ingordigia si farà beffe di noi? A che limiti si spingerà una temerarietà che ha rotto i freni?
Che tempi! Che malcostume!
Da molto tempo, popolo della Gallia, siamo in balia dei pericoli e delle sopraffazioni di Roma ma, non so come, il culmine di ogni scelleratezza, di antichi e folli soprusi è stato raggiunto nel periodo del proconsolato di Tito Mario Prisco.
Vattene, Mario Prisco! Libera la Gallia dal terrore!
Del resto, proconsole, cosa può ancora interessarti in questo Paese, dove non c’è nessuno che non ti tema, nessuno che non ti detesti, tranne gli uomini perduti che partecipano dei tuoi furti?
Ma a che servono le nostre parole? A piegarti, in qualche modo? A farti ricredere? A indurti a preparare la fuga, a pensare all’esilio? Potessero gli dei immortali ispirarti tali propositi! Ma non ci illudiamo: non è il caso di chiederti di provar rimorso per i tuoi vizi, di temere le pene previste dalla legge, di avere dei ripensamenti di fronte alle difficoltà in cui versa la Gallia. Non sei infatti il tipo, proconsole, da astenerti dall’infamia per pudore, dal pericolo per paura, dalla follia per ragionevolezza.
Lascia una buona volta la Gallia!
Le porte sono aperte.
Vattene!

I manifesti erano comparsi nella notte, un po’ ovunque ad Arelate. Erano incollati sulle colonne del foro, agli ingressi delle thermae e del teatro, sui muri di fianco alle porte delle tabernae… La gente si fermava a leggere e se ne andava via sghignazzando o scuotendo la testa.
Tito Canio Rufo lesse attentamente la copia che era stata incollata di fianco alle fauces del teatro, tirò un sospiro di disperazione, staccò accuratamente il foglio dal muro e lo piegò infilandolo in una piega della toga mentre si allontanava: senza dubbio questa doveva essere una trovata dei Figli della Gallia. Non riusciva a immaginare un tempismo peggiore, dopo le minacce del liberto del proconsole e il previsto arrivo del praetor peregrinus da Roma.
Anche Annia Vera aveva visto i manifesti affissi in città: sarebbe stato davvero strano il contrario, visto che erano dappertutto. Ormai almeno metà della popolazione di Arelate doveva averli visti e letti, ma lei era tra i pochi che sapevano qualcosa di più: questa era chiaramente opera dei Figli della Gallia che, come prevedibile, erano riusciti a fare la cosa più stupida nel momento peggiore.
A differenza di quanto aveva fatto il flamen, Vera si guardò bene dal prendere uno dei manifesti, o anche solo dal mostrare troppo interesse nella cosa: inutile rischiare di compromettersi ulteriormente.
D’altra parte Vera non si faceva illusioni: il proconsole non era il tipo da passare sopra un attacco del genere e i Figli della Gallia erano di gran lunga troppo stupidi per aver coperto sufficientemente bene le loro tracce; era solo questione di tempo, probabilmente poco tempo, prima che venissero arrestati tutti.
Il vero problema era il seguente: una volta arrestati, avrebbero fatto il suo nome? Dopotutto lei faceva ancora parte del loro gruppo, almeno nominalmente; avrebbero tirato anche lei nel pasticcio che avevano generato e nei guai in cui sicuramente si erano cacciati?
Annia Vera non aveva modo di saperlo, ma non era disposta a scommettere la sua vita sulla capacità dei suoi amici di tenere la bocca chiusa. A suo padre non avrebbe fatto piacere, ma non c’era alternativa: sarebbe sparita per un po’ da Arelate, in attesa di vedere come andavano le cose.
Sarebbe andata oggi stesso a trovare i Biraxi, per vedere se la potevano ospitare per qualche tempo. Così, almeno, avrebbe potuto portarsi avanti con le lezioni ai ragazzi.


Nel frattempo Lucio e Marco erano alla Popina del Legionario, davanti alla terza brocca, ormai praticamente vuota, di vino schietto.
– Non credevo che tu potessi scrivere così bene, Lucio. È venuto fuori un discorso degno dei migliori retori di Roma.
– Ho fatto del mio meglio, – si schermì Lucio – dopotutto sono anni che studio grammatica e retorica, e qualcosa mi sarà pure rimasta attaccata addosso.
– Comunque non servirà a niente, lo sai anche tu. – La voce di Marco era un po’ impastata: – Con i nostri padri che ci tengono d’occhio da una parte e le spie del proconsole dall’altra, siamo sotto doppio controllo segreto. Ormai è finita, è solo questione di tempo prima che ci vengano ad arrestare.
– Finita? Finita? – Balzò in piedi e si mise a gridare: – Qui non finisce proprio niente se non lo decidiamo noi! Æterno duro! Si è forse arreso Vercingetorix quando Giulio Cesare ha assediato Alesia? – Lucio ondeggiava un po’ ma la sua voce era ancora abbastanza ferma.
– Ehm… Sì, mi sembra proprio di sì.
– Ma cosa sta dicendo? – Chiese Corax che era venuto a portare ancora altro vino e si era fermato ad ascoltare.
– Lascialo perdere, è partito.
– Viva Gergingetor… Viva Vervingeto… Viva Vercingetorix! – Riuscì finalmente a completare Lucio con un ultimo sforzo.
– Sei sicuro di non aver bevuto un po’ troppo, Lucio? Ti senti bene?
– Ferpettamente! – E cadde riverso sul tavolo.
Marco, aiutato da Corax, stava ancora cercando di sollevare l’amico svenuto, quando dalla porta entrò un drappello di milites che puntò dritto su di loro.
– Marco Canio Rufo e Lucio Iulio Enobarbo? – Esordì il centurione: – Vi dichiaro in arresto per ordine del proconsole Caio Mario Prisco. Ho l’ordine di scortarvi direttamente al porto e imbarcarvi per Narbo.


– Li hanno arrestati tutti, da quello che ho saputo. – Tito Canio Rufo era in piedi nell’atrium della domus degli Iulii Enobarbi.
– E ben gli sta, per quanto mi riguarda. – L’umore di Egidio non era migliorato dopo l’incontro con il segretario del proconsole, qualche giorno prima.
– Forse hai ragione, – ammise Canio Rufo – ma non intendo abbandonarli a loro stessi. Parto domani stesso per Narbo: intendo rappresentarli legalmente all’inchiesta o al processo che inevitabilmente si terranno. Non credi che sarebbe il caso che venissi anche tu?
– Preferirei di no, ma temo di esserne obbligato; sono pur sempre il pater familias e quindi ho delle responsabilità: o lo disconosco come figlio, oppure sono tenuto a rappresentarlo legalmente. In questa casa c’è almeno qualcuno che si ricorda del mos maiorum.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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