Capitolo 13


Insulae Anulares, a.d. III Kal. Iul. 874 AUC

Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
A tre giorni dalla partenza dal campo sulla riva dell’Asif, poco dopo aver doppiato un ampio promontorio che abbiamo chiamato Punta Arpione a causa della sua forma, abbiamo incontrato un ampio delta, largo più di una ventina di miglia, da cui ci siamo tenuti alla larga per paura di incagliarci nei fondali bassi; è ormai da molti giorni che la costa è costantemente orientata in direzione sud-sudest.
Il giorno successivo siamo giunti all’estuario di un grande fiume che potrebbe forse essere navigabile: avevamo ancora abbastanza acqua e carne nella stiva, quindi abbiamo deciso di non esplorarlo.
Sono già diversi giorni che la vegetazione sta cambiando: al posto della solita interminabile prateria punteggiata di arbusti, il panorama adesso si sta riempiendo di foreste fittissime, con alberi dalla statura imponente che sembrano crescere l’uno a ridosso dell’altro.
Dopo altri sette giorni di navigazione, sempre con il vento a favore, siamo arrivati in vista di un gruppo di piccole isole a poche miglia dalla costa di un lungo promontorio.
L’arcipelago, che abbiamo chiamato Insulae Anulares, è formato da due isole sottili e curve, lunghe circa quattro miglia ciascuna, che costituiscono un anello quasi perfetto, all’interno del quale si trovano diverse isolette più piccole.
Ho deciso di cercare un approdo sulla costa dell’isola orientale per esplorarne l’interno.

– Ti dico che l’ho visto con i miei occhi! – Insisteva il medico della Inceptio: – Era lungo almeno dieci cubiti e ci stava seguendo. Quando ho urlato per chiamarvi si dev’essere spaventato ed è scomparso sott’acqua.
– Gibil, non esistono pesci lunghi dieci cubiti e senza pinne. – Gli fece notare Aktis: – Te lo sarai immaginato.
– Ti dico che l’ho visto! – Il piccolo medico continuava a scrutare il mare mentre la Inceptio avanzava lentamente alla ricerca di un punto adatto all’approdo. A un tratto prese il centurione per un braccio e gli indicò qualcosa: – Eccolo di nuovo, Aktis. Guarda laggiù a destra.
E in effetti a una certa distanza dalla Inceptio era affiorata dal mare una lunga forma grigia, come una piccola isola allungata che però si muoveva insieme alla nave.
Mentre Aktis la osservava stupito la sagoma si contrasse e, dal lato anteriore, sbucò una piccola testa con due occhi porcini; la bestia sembrò osservarli con curiosità per qualche istante e poi, con un guizzo appena percettibile di una larga coda, si immerse nell’acqua.
– Beh, Gibil, devo ammettere che avevi ragione.
– Credo che abbiate ragione entrambi centurione, – si intromise Arvind – Gibil ha certamente visto qualcosa, ma non credo che quell’animale sia un pesce.
– Come puoi dirlo da questa distanza? – Chiese Gibil: – E se non è un pesce che cos’è, e perché sta in acqua?
– Il fatto che sia in acqua non vuol dire molto; dopotutto ci sono tanti animali che possono nuotare nel mare senza essere pesci, anche noi uomini quando vogliamo. E so che quello non è un pesce perché ho visto bene il suo dorso e non c’erano pinne. Tutti i pesci hanno almeno una pinna sopra la schiena.
– E quindi secondo te che cos’era?
– Non lo so ma intendo scoprirlo presto. Quando avremo trovato un approdo chiederò al trierarca di mandare le scialuppe per una spedizione di pesca, o forse dovrei dire di caccia, a quello strano mostro.


C’erano voluti gli equipaggi di entrambe le scialuppe per riportarlo a terra: quel bestione era davvero lungo più di dieci cubiti e pesava non meno di millecinquecento librae. Adesso, disteso sulla riva, sembrava un grosso sacco grigio con la coda: oltre a un paio di pinne laterali ridicolmente piccole e al muso dal lungo grugno e con un paio di piccoli occhi incassati, non aveva altre caratteristiche riconoscibili.
– Con quel muso sembra un maiale senza zampe. – Commentò un miles ridendo, e “porco di mare” divenne il nome della strana bestia.
Il piccolo physiologo indiano partecipò attivamente alla macellazione, o forse il termine corretto sarebbe dissezione, del porco di mare: dopo che la carcassa fu scuoiata, più di una volta fermò gli uomini per studiare la forma o le dimensioni di un organo prima che venisse tagliato e rimosso. Esaminò in particolare la testa, il fegato, lo stomaco, le pinne e la coda, facendo strani commenti sulla struttura delle ossa di queste ultime.
– Vedete, – disse più tardi parlando con Aktis e Gibil che lo stavano osservando – questa bestia assomiglia davvero a un porco. A differenza di un pesce ha uno stomaco, un fegato e degli intestini straordinariamente simili a quelli di un maiale; anche la pelle spessa e coperta di setole rade ricorda quella dei suini.
– Però non ha zampe – fece notare Gibil – e ha una coda da pesce, non da maiale.
– È vero. Ma guarda come sono fatte le ossa delle pinne: adesso che tutto il muscolo e il grasso sono stati tolti le puoi vedere bene.
– In effetti hai ragione – gli rispose Aktis – sono proprio ossa, ben diverse dalle lische di un pesce.
– Esattamente. – Confermò Arvind. E poi, dopo aver messo in ordine con cura le ossa sulla sabbia: – Noti qualcosa di strano adesso?
Fu il medico a rispondergli immediatamente: – Per Æsculapius, sembra un braccio con la mano!
– Proprio così Gibil, omero, radio e ulna; gli ossicini tondi del polso; le ossa lunghe del palmo e le falangi delle dita. A parte il fatto che manca una falange all’ultimo dito, potrebbero essere le ossa del braccio e della mano di un uomo, anche se deforme: le ossa del braccio sono sproporzionatamente corte rispetto a quelle della mano.
– È vero, – confermò il medico – la somiglianza è sorprendente. Come si può spiegare questa stupefacente coincidenza, Arvind?
– Non credo che si possa parlare di coincidenza, – lo corresse il physiologo – sono anni che studio l’anatomia degli animali, e ti posso assicurare che questo tipo di corrispondenza è più la regola che l’eccezione. La maggior parte delle caratteristiche dello scheletro, della muscolatura e degli organi interni sono comuni tra tutti o quasi gli animali che ho studiato. Ci sono ovviamente delle differenze, ma sono minime: le singole ossa possono essere più lunghe o più corte, a volte c’è qualche osso in più o in meno, soprattutto nelle zampe, e ho notato una forte variabilità nel numero di vertebre e di costole, ma quello che io chiamo il progetto generale degli animali non cambia mai.
– E perché mai dovrebbe essere così? – Chiese Aktis incuriosito: – Non capisco perché dovrebbero esserci così tanti tipi di animali diversi tra di loro che però condividono le stesse caratteristiche. Tu hai parlato di “progetto”, e questo presuppone un progettista; hai un’ipotesi che spieghi tutto questo, Arvind?
– Sì, centurione, ho alcune idee sul perché di questo strano fenomeno anche se non sono ancora pronto a formulare una teoria completa; uno dei motivi per cui ho voluto unirmi a questa spedizione era proprio la possibilità che mi offriva di raccogliere nuove informazioni in merito.
La mia idea di base è che la funzione segue la forma: le differenze tra i vari animali si possono ricondurre alle diverse condizioni in cui vivono e alle loro abitudini e comportamenti specifici. Ciascuna specie di animale utilizza a modo suo le caratteristiche che ha per così dire ereditato dal progetto generale, in base al modo e in misura dell’entità con cui queste caratteristiche si allontanano o meno dal progetto base. Ad esempio quasi tutti gli animali usano i loro arti, chi quattro, chi solo due come noi, per camminare, ma questo porco di mare non ha gli arti posteriori e quelli anteriori sono trasformati in pinne: è quindi ovvio che è più adatto a una vita acquatica che non a camminare sulla terraferma.
Prima che Gibil potesse chiedergli di spiegarsi meglio vennero interrotti da un miles che, arrivato di corsa, lo chiamò con tono concitato: – Medico, presto, c’è un uomo che sta male.


Uno dei milites della terza centuria era steso a terra nella radura, quasi immobile. Solo un leggero tremito alle braccia indicava che era ancora vivo.
Gibil si chinò sul malato: il volto terreo contrastava in maniera paurosa con la tunica rossa, e gli occhi fissavano nel vuoto con le pupille dilatate. Il medico gli prese un braccio che era madido di sudore e cercò inutilmente il polso: – Cosa gli è successo? – Chiese a quelli che gli stavano intorno.
Gli rispose l’optio della sua centuria, Quinto Flaviano: – È stato morso da un serpente poco più di mezz’ora fa. Eravamo in perlustrazione ai margini della foresta e Spurio l’ha pestato senza accorgersene, il serpente si è girato e l’ha morso sul polpaccio.
– E avete aspettato mezz’ora per chiamarmi? Non sapete che nel caso di un morso di serpente velenoso è fondamentale intervenire al più presto? Com’era questo serpente? – Gli chiese Gibil incredulo.
– Hai ragione medico, ma sul momento non sembrava che ci fossero problemi: il punto in cui è stato morso non si era gonfiato e non gli faceva molto male, sembrava una normale biscia verde, lunga forse tre piedi. – Si giustificò l’optio: – Abbiamo terminato il nostro giro e stavamo tornando qui, quando Spurio ha cominciato a barcollare, disse che faceva fatica a camminare e che gli doleva la testa. Poco prima di arrivare è caduto a terra ed è allora che ti abbiamo mandato a chiamare.
Il medico tornò ad osservare il miles ferito senza poter fare nulla per aiutarlo: il respiro era sempre più corto e irregolare, simile a un rantolo, e dopo poco tempo si interruppe: – È morto, trierarca. – Disse laconico a Dominico che li aveva raggiunti da poco.


La morte del miles Spurio ebbe un profondo impatto sul morale dell’equipaggio. Anche in tempo di pace un legionario è sempre esposto a incidenti e malattie, ed è preparato ad accettarli; in quasi quattro mesi di viaggio invece, contro ogni aspettativa, non c’era ancora stato nessun incidente mortale e gli uomini sembravano ormai quasi convinti di essere in qualche modo protetti dagli dèi.
Il serpente che aveva morsicato e ucciso Spurio aveva rotto l’incantesimo: era come se fosse un segno, un presagio di sventura per l’intera spedizione. Se prima si sentivano sicuri e invincibili, i milites adesso erano ansiosi, fin troppo consci di essere mortali e lontani migliaia di miglia dalle loro case.
Nemmeno la cena organizzata la sera con la carne dell’enorme porco di mare servì a risollevare il morale: l’equipaggio era silenzioso, non si sentivano volare i soliti scherzi e la conversazione languiva.
Dominico si consultò con il pilus prior Aktis e decisero che la cosa migliore da fare era abbandonare l’esplorazione delle due isole, che peraltro non sembravano ospitare niente di particolarmente interessante, e di riprendere il mare l’indomani stesso.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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