Capitolo 19


Insula draconis, Nonae Sep. 874 AUC

Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
Sono passati venti giorni da quando abbiamo lasciato l’isola di Bioko e la tribù di M’bala e abbiamo ripreso la navigazione verso meridione, lungo una costa coperta da una foresta interminabile.
Abbiamo fatto un paio di rapide soste per rinnovare la scorta d’acqua, ma questa vegetazione impenetrabile mette a disagio l’equipaggio e quindi abbiamo evitato di fermarci più a lungo di quanto fosse strettamente necessario.
Inoltre riteniamo che sia meglio evitare queste foreste: è da quando le abbiamo incontrate la prima volta all’accampamento di Finis Africae che sono cominciati i casi di febbre; a tutt’oggi trentadue milites hanno avuto attacchi e sette di questi ne sono morti. Gibil sta facendo del suo meglio ma è tristemente noto che non esistono cure infallibili per questo tipo di febbre.
Da cinque o sei giorni, subito dopo la nostra ultima sosta per rifornirci d’acqua, l’aspetto della costa ha cominciato lentamente a cambiare: la foresta è gradualmente diventata meno fitta e impenetrabile, e poco per volta ha lasciato il posto a una prateria cosparsa di cespugli e alberi di altezza modesta. Ci sembra quasi di essere tornati sulle rive dell’Asif, e proprio davanti a noi vediamo adesso aprirsi l’ampio estuario fangoso di un fiume di notevoli dimensioni.

La Inceptio era entrata nell’estuario e ne stava risalendo a remi la lenta corrente; il fiume era largo due o trecento passi e, sebbene non molto profondo, sembrava navigabile senza troppi rischi.
La nave aveva già superato un paio di ampie anse e aveva percorso tre o quattro miglia quando la vedetta a prua gridò: – Tutto a destra, gubernator, su questo lato del fiume ci sono delle secche.
Sobadako grugnì qualcosa in segno di assenso e fece spostare la nave verso la sponda opposta del fiume. In effetti, oltre alle secche segnalate dalla vedetta, dalla superficie del fiume sporgeva la sagoma di un’isoletta lunga forse un quarto di miglio. La sua forma, le sue dimensioni e la posizione al centro dell’ansa del fiume ricordavano in maniera impressionante l’Insula Tiberina, in mezzo all’ansa del Tevere davanti al Circo Flaminio a Roma.
Aktis si avvicinò a Dominico: – Trierarca, propongo che approdiamo su quell’isola.
– Non vedo difficoltà, ma hai in mente un motivo in particolare?
– Due motivi, in realtà. – Rispose Aktis: – In primo luogo l’isola è abbastanza piccola e quindi saremmo al riparo da eventuali attacchi; mentre risalivamo il fiume ho avuto più volte la sensazione che sulla riva ci potesse essere qualcuno che ci osservava.
– Sì, in effetti un accampamento su quell’isola dovrebbe essere ragionevolmente al sicuro: è così piccola e spoglia che è difficile immaginare che qualcuno possa organizzare lì un attacco di sorpresa. E quale sarebbe l’altro motivo?
– Beh, – esitò Aktis – stavo pensando che potrebbe essere utile per sollevare il morale dei milites. Naturalmente avrai notato la somiglianza di questo isolotto con l’Insula Tiberina
– Naturalmente. E con questo?
– Vedi, trierarca, i milites sono molto preoccupati per tutti questi casi di febbre, e per il fatto che ci sono già stati tanti decessi e quest’isola è uguale all’Insula Tiberina, dove c’è il grande tempio di Æsculapius
– Questa, centurione, mi sembra davvero un’ottima idea. Sobadako, – gridò al gubernator – vedi se è possibile trovare un approdo sulle coste di quell’isola. Quando lo trovi, scendiamo a terra.


Prima che tramontasse il sole i milites avevano terminato l’allestimento del castrum sull’isola. Non c’erano abbastanza alberi per pensare di realizzare un vallum, ma in realtà non era necessario; data la forma dell’isola, piatta e con scarsa vegetazione, le sentinelle sarebbero state in grado di individuare per tempo l’avvicinarsi di un qualunque nemico e il fossum e l’agger l’avrebbero rallentato abbastanza da permettere di organizzare una difesa. Inoltre, escludendo lo sbarco in massa di una forza ostile, si poteva ragionevolmente prevedere che i milites con i loro scuta sarebbero stati sufficienti a fermare un attacco. Maggiore cura venne presa invece per proteggere la nave da eventuali aggressori. Una schola di trentadue uomini venne lasciata a bordo organizzata in quattro turni di guardia.
Terminato l’allestimento del castrum, mentre una parte dei milites si occupava di preparare la cena, Aktis assegnò a Caledonio trenta uomini, uno da ciascun contubernium, che vennero messi al lavoro sulla Via Principalis. Utilizzando i sassi che erano stati ammucchiati durante la preparazione del campo e legandoli con zolle di terra, costruirono un’ara davanti al praetorium: era una struttura molto semplice, quasi rozza, ma sarebbe stata sufficiente.


Il giorno successivo fu dedicato alla caccia.
La seconda centuria, comandata dal centurione Tito Fusco, utilizzò le scialuppe della Inceptio per attraversare il ramo di fiume alle spalle dell’isola e arrivare così alla sponda destra, proprio al centro dell’ansa.
Il terreno, come del resto quello dell’isola, era occupato da una prateria, interrotta qua e là da cespugli e arbusti, e parzialmente coperto da bassi acquitrini. I legionari si allontanarono dal fiume di poche centinaia di passi, in modo da evitare le zone più paludose e assunsero una formazione aperta, disponendosi a gruppi di quattro su un fronte largo circa cento passi.
Per ordine di Fusco si muovevano il più silenziosamente possibile, comunicando tra loro a gesti, in modo da evitare di spaventare le eventuali prede. Queste precauzioni vennero premiate quando, dopo meno di un’ora di marcia lenta e cauta, il centurione segnalò loro di fermarsi e di stare in assoluto silenzio: a poco più di cento passi dal centro della loro formazione si vedeva un branco di animali.
Da quella distanza si sarebbero detti buoi o bufali e formavano un gruppo compatto di una dozzina o poco più di capi che brucavano tranquillamente l’erba della prateria; non sembrava che avessero notato la presenza dei milites, o forse non li consideravano pericolosi: alcuni degli animali si guardavano attorno con l’aria di chi verifica la presenza di eventuali pericoli, mentre gli altri pascolavano placidamente.
Tito Fusco diede rapidamente e silenziosamente alcuni ordini: le ali della formazione si allargarono ulteriormente e aggirarono gradualmente il branco; quando questi furono completamente circondati i milites cominciarono a stringere il cerchio, con i pila pronti per il lancio attendendo il comando del loro centurione.
Riuscirono a percorrere circa la metà della distanza che li separava dai bovini prima che questi dessero segni di agitazione: un paio di muggiti da parte degli animali di guardia richiamarono l’attenzione di tutti gli altri che sollevarono la testa e si guardarono intorno sospettosi.
A un ordine di Tito, ottanta pila vennero lanciati contemporaneamente verso la mandria e altrettanti gladia vennero immediatamente sguainati, ma non era necessario: il lancio dei pila era andato perfettamente a segno e gli animali erano tutti a terra, per la maggior parte morti, gli altri gravemente feriti; questi ultimi vennero rapidamente finiti tagliando loro la gola con il gladio.
Ci vollero tre ore e due viaggi per portare le tredici carcasse, del peso di quasi mille librae ciascuna, fino alla riva del fiume utilizzando dei traini di fortuna.
La seconda centuria tornò all’isola e venne sostituita dalla terza, con il compito di scuoiare e macellare tutta quella carne.


Nel frattempo Caledonio e una dozzina di milites della prima centuria stavano allestendo le reti. Qualcuno aveva notato che nella zona acquitrinosa all’estremità occidentale dell’isola si trovavano in gran numero degli uccelli selvatici molto simili a delle grosse pernici, grandi all’incirca quanto un normale pollo.
La squadra guidata da Caledonio stava appunto finendo di installare una trappola per questi volatili: una delle reti da pesca della Inceptio era stesa sul terreno fangoso, con gli angoli legati a corde che passavano per delle carrucole fissate ai rami di uno dei rari alberi della zona. Terminato il lavoro gli uomini si allontanarono portando con sé le estremità libere delle corde e si disposero ad aspettare in silenzio.
L’attesa non fu lunga: non appena gli umani si furono allontanati gli uccelli, che erano stati disturbati e spaventati dalla loro presenza, tornarono a posarsi e a razzolare nel loro territorio ora di nuovo apparentemente libero. Caledonio attese il momento migliore e poi diede il segnale: i milites tirarono tutti insieme le corde e la rete si sollevò intrappolando una dozzina di pernici giganti.
Le prede vennero trasferite in alcune gabbie di vimini che erano state appositamente preparate e furono trasportate al campo, mentre la trappola veniva ripristinata e l’operazione ripetuta da capo. Alla fine la rete e le corde vennero recuperate e l’accampamento era stato arricchito di quaranta grosse pernici starnazzanti.


All’alba del mattino seguente il trierarca presiedette alla cerimonia dell’holocaustum in onore di Æsculapius. Senza armi né armatura, con indosso solo la toga drappeggiata in modo che un lembo di essa gli coprisse la testa, Dominico procedette al rito mentre l’intero equipaggio assisteva in assoluto silenzio.
Gli vennero portati i volatili catturati il giorno precedente, solo tre dozzine perché alcuni erano stati feriti nella cattura o avevano difetti evidenti: solo animali perfettamente sani e integri potevano essere sacrificati.
Dominico, nel suo ruolo di tribunus e quindi di pater familias dell’equipaggio, recitò una preghiera ad Æsculapius offrendogli gli uccelli a lui sacri e implorando la sua intercessione per far terminare la febbre.
Una ad una le pernici vennero immolate e sgozzate sull’ara, l’addome aperto e il fegato estratto e ritualmente esaminato; Dominico si dichiarò soddisfatto dei segni che vi lesse e quindi si procedette a porre le carcasse sulla pira appositamente preparata. Il fuoco venne acceso e si levò rapido dalla legna che, ancorché umida, era stata abbondantemente cosparsa di olio.
Proprio in quel momento da un buco nel terreno uscì una serpe verde lunga almeno tre piedi. Nello sbalordimento generale il serpente strisciò sull’ara leccando il sangue delle vittime sacrificali prima di tornarsene da dov’era venuto. Si trattava senza alcun dubbio di un prodigio e venne interpretato in maniera estremamente favorevole: il dio aveva mandato il serpente sacro a mostrare il suo apprezzamento per il sacrificio in suo onore.
Restarono tutti a guardare il grande e fumoso falò che bruciava l’offerta portandola al dio e poi, quando questo fu completamente consumato, tornarono alle loro occupazioni usuali: quello che si doveva fare era stato fatto, il dio era stato invocato nelle giuste forme e nel luogo più indicato e il sacrificio era stato accettato; adesso stava a lui onorare la sua parte del contratto e fermare questa epidemia.


Nel pomeriggio venne organizzata un’altra battuta di caccia sulla terraferma; questa volta l’onore toccò alla prima centuria guidata in persona da Aktis.
Non ebbero la stessa fortuna toccata ai loro compagni il giorno precedente e dovettero spostarsi di quasi un miglio verso nordest, risalendo la lenta corrente del fiume, prima di avvistare una preda interessante.
Questa volta si trattava di un piccolo branco di antilopi, una decina in tutto, ma si trattava di bestie molto grandi, lunghe forse sei o sette piedi ciascuna.
La caccia seguì lo stesso schema di quella del giorno precedente: il branco venne circondato e sterminato mediante il lancio dei pila senza che nessuno degli animali facesse nemmeno in tempo a cercare di fuggire.
Mentre si stavano preparando a trasportare le carcasse l’optio Quinto Modio richiamò l’attenzione di Aktis indicando in direzione nord: – Centurione, guarda laggiù.
A circa duecento passi di distanza dalla centuria dei cacciatori era comparso un gruppetto di una ventina di persone, uomini e donne, oltre a un numero imprecisato di bambini.
Avevano la pelle del colore del cuoio ed erano quasi completamente nudi: oltre a un subligaculum, gli adulti avevano addosso solo una specie di mantello aperto; gli uomini erano armati di lunghe lance dall’aspetto abbastanza rozzo e alcuni di loro imbracciavano un arco a singola curvatura lungo quattro o cinque piedi. Anche un paio delle donne erano armate di arco, mentre le altre portavano a tracolla delle sacche dalla forma strana.
Il gruppo rimaneva ad osservare il lavoro dei cacciatori in un silenzio quasi religioso, bambini compresi, ma apparentemente senza intenzioni ostili.
– Secondo te cosa vogliono? – Chiese Modio.
– Penso che stiano aspettando che noi macelliamo le nostre prede per vedere se lasciamo loro qualcosa di commestibile.
– Ma noi non abbiamo intenzione di macellarle, le vogliamo portare via. Credi che ci potrebbero attaccare quando lo capiranno?
– Attaccare? – Rise Aktis: – Undici uomini seminudi armati di lancia e cinque archi da caccia contro un’intera centuria armata? Dovrebbero essere completamente folli solo per pensarlo. Però, – aggiunse facendosi più serio – dopotutto siamo sulla loro terra, e penso che sarebbe giusto lasciar loro qualcosa in pagamento degli animali che abbiamo cacciato.
Scelse quattro milites e indicò la più piccola delle antilopi abbattute: – Forza, uomini, prendete su quella e seguitemi. – E si avviò lentamente verso il gruppo dei nativi seguito dai quattro che portavano la carcassa in spalla.
Quando arrivarono a una ventina di passi da loro, gli indigeni cominciarono a dar segni di nervosismo. Aktis si fermò, facendo segno ai portatori di appoggiare a terra il loro carico, e studiò meglio la gente che stava davanti a lui e quello che vide confermò la sua prima impressione: il gruppo era estremamente eterogeneo, uomini, donne e bambini di tutte le età, da un paio di neonati al seno delle madri a due o tre persone molto anziane.
Sembrava che si trattasse di un’intera famiglia, evidentemente impegnata nella ricerca di cibo: uno dei ragazzi aveva a tracolla una corda, o forse una striscia di cuoio, a cui erano legati una mezza dozzina di uccelli grandi all’incirca come tordi, mentre le sacche portate dalle donne contenevano foglie, bacche e radici.
Viste da vicino le lance impugnate dagli uomini rivelavano una fattura rozza, come Aktis aveva già correttamente valutato: erano costituite da semplici bastoni di legno a cui era stata fissata con dei lacci di cuoio una punta fatta di pietra scheggiata o, in un paio di casi, ricavata da un corno di antilope.
Aktis e i suoi uomini fecero cinque passi indietro e piantarono per terra i pila in segno di pace; quattro degli indigeni fecero qualche passo in avanti e ripeterono lo stesso gesto con le loro lance. I due gruppi rimasero a guardarsi per qualche istante con un atteggiamento stranamente solenne e poi, lentamente e disarmati, i quattro uomini avanzarono e si caricarono in spalla la carcassa dell’antilope.
Aktis e i suoi attesero che gli altri fossero tornati a unirsi al loro gruppo, raccolsero i pila, fecero altri cinque passi indietro, si voltarono e tornarono a raggiungere gli altri milites per organizzare il trasporto delle prede fino alla nave.
Fu solo in seguito che Aktis si rese conto che, per tutta la durata dell’incontro, nessuno aveva detto una sola parola.

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