Capitolo 23


Capo del porto, a.d. V Non. Oct. 874 AUC

Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
In soli tre giorni di lavoro intenso il piccolo promontorio che abbiamo chiamato Capo del Porto è diventato un castrum, un porto e un cantiere allo stesso tempo.
Un fossum largo dieci piedi e un agger alto otto e lungo circa duecento passi separano ora il promontorio dall’interno: non ho reputato necessario fortificare anche gli altri tre lati, visto che sono costituiti da scogliere a picco sul mare. Il terreno all’interno del campo è stato disboscato e spianato, le tende erette nella sezione più vicina all’agger e il rimanente spazio dedicato ai lavori per la riparazione della Inceptio.
Due squadre di milites lavorano nella boscaglia fuori dal campo abbattendo tutti gli alberi alti più di venticinque piedi e tagliandone tutti i rami: Caledonio ha detto che gli serviranno un centinaio di robusti pali per sorreggere la nave una volta che sarà stata portata in secca e vicino al canale già si sta accumulando una catasta di grossi tronchi di varie dimensioni. Il lavoro è rallentato solo dal fatto che sulla nave abbiamo solo due asce, oltre ad alcune accette e seghe, e quindi non si possono abbattere più di due alberi per volta; nonostante questo Aktis ha calcolato che procedendo al ritmo attuale nel giro di altri cinque giorni avremo a disposizione tutto il materiale richiesto.
Altre due squadre di venti milites ciascuna sono al lavoro sulla scogliera, ai due lati dell’imboccatura del canale, a raccogliere e impilare pietre di varie dimensioni. Da massi grandi il doppio della testa di un uomo a ciottoli grandi come un pugno, i sassi vengono ordinatamente ammucchiati in cumuli, divisi per dimensioni; Caledonio non ha spiegato in dettaglio quali opere di ingegneria vuole realizzare per trasformare il canale in un porto, ma il nostro magister fabrum è un architetto qualificato, per cui ho deciso di lasciargli mano libera.
Nel frattempo tutti i milites non occupati nei turni di guardia e nei lavori di allestimento del castrum sono impegnati a vuotare la nave. Non soltanto il carico della stiva, ma anche le sarcinae dei milites, le loro armi, armature, le vele, persino gli alberi… insomma, tutto quello che si può rimuovere viene smontato e portato a terra mediante le scialuppe, e qui immagazzinato sotto appositi tendoni.
Entro tre giorni della Inceptio rimarrà solo un guscio vuoto, alleggerito nei limiti del possibile; gli unici oggetti mobili che rimarranno a bordo sono i sessantaquattro remi che serviranno a portare la nave nel canale.

Erano le Nonae di October, il giorno successivo al plenilunio, e Claudio Tolomeo aveva studiato le maree dei giorni precedenti e previsto che il massimo del livello sarebbe stato raggiunto durante la nona ora.
All’ora settima la nave cominciò lentamente a muoversi spinta dai remi dei soli sessantaquattro thranitai e si avvicinò con estrema cautela all’imboccatura del canale; quattro marinai a prua e due a poppa controllavano ancora una volta il fondale con scandagli e pertiche per evitare il rischio di incontrare scogli sommersi. Leggero com’era, lo scafo pescava solo per tre o quattro piedi e la grande trireme rollava e beccheggiava in maniera paurosa, ma la perizia di Sobadako e il paziente e faticoso lavoro dei remiges riuscirono a mantenerla in assetto.
Quando la prua entrò nel canale dalle scogliere vennero lanciate delle cime che furono rapidamente assicurate alle caviglie sulle murate; i remi vennero tirati a bordo e la grande nave venne trainata a forza di braccia fino in fondo al bacino, aiutata anche dall’ultimo flusso della marea montante. Una volta giunta in posizione, vennero lanciate e assicurate altre cime e la Inceptio venne a trovarsi legata al centro di una ragnatela che la immobilizzava al centro del canale.
– Adesso viene la parte difficile, – spiegò il magister fabrum a Dominico – non possiamo permetterci errori in questa fase.
Le squadre erano pronte con pali, cunei e mazze, Caledonio aveva passato tutta la mattina a organizzarle e a spiegare per filo e per segno cosa avrebbero dovuto fare in ogni circostanza ragionevolmente prevedibile.
Una parte degli uomini scesero dalle scarpate usando le corde e portando con sé i loro pali, mentre altri salirono a bordo e si sporsero dalle murate: rapidamente, con ordine e organizzazione, lo scafo della Inceptio venne puntellato mediante decine di pali che si appoggiavano da un lato sulla roccia viva delle pareti o del fondale e dall’altro ai fianchi della nave.
Caledonio seguiva tutta l’operazione, controllando che i puntelli non venissero appoggiati a punti troppo deboli dello scafo e che il peso della nave venisse distribuito uniformemente. Ci vollero quasi due ore per posizionare tutti i supporti e, mentre stavano dando gli ultimi ritocchi, già la marea si ritirava e il livello dell’acqua cominciava a scendere.
Era appena passato il tramonto quando, con una spaventosa serie di scricchiolii, la nave si ritrovò sostenuta dai soli puntelli, mentre l’acqua si ritirava sempre più.
– Bene, – riferì Caledonio a Dominico dopo una rapida ispezione a bordo – sembra che ce l’abbiamo fatta. La prossima invece sarà la parte più faticosa.
Lavorando alla luce di decine di torce, i milites cominciarono a chiudere la bocca del canale: all’inizio lanciando le pietre che erano state accumulate nei giorni precedenti dall’alto, e poi calandole con più cura, costruirono una specie di muro o diga, lungo cinquanta piedi e alto sette o otto, a collegare tra loro i due lati del canale.
Cominciarono con un basamento di grosse rocce che lasciavano passare l’acqua tra gli interstizi e poi, a partire dal secondo strato di pietre, mescolavano zolle di terra ai sassi in modo da rendere la struttura più impermeabile. Infine, verso l’inizio della seconda vigilia quando la marea era arrivata al minimo, vennero scaricate alla base del muro grandi quantità di terra e sabbia così da sigillarlo completamente.
Quando verso mezzanotte la marea cominciò di nuovo a salire si poté constatare che il lavoro era stato fatto a dovere: la diga teneva e, mentre il livello del mare continuava a salire, il canale ormai trasformato in un bacino chiuso rimaneva quasi asciutto.


All’alba Caledonio era già sul cantiere per verificare il risultato del lavoro notturno. La situazione era eccellente: la diga aveva retto bene, e l’acqua sul fondo del bacino raggiungeva a stento il ginocchio nei punti più profondi, la nave era solidamente appoggiata sui pali ed era all’asciutto, completamente fuori dall’acqua.
– Vorrei avere tre teste e dodici mani. – Si lamentò con Dominico che lo aveva seguito sulla scogliera: – Ci sono troppe cose da fare: drenare il fondo del bacino, pulire lo scafo, smantellare la parte danneggiata, preparare la pece…
– È chiaro che non puoi fare tutte queste cose contemporaneamente, perché non cerchi di cominciare dai lavori più urgenti?
– Hai ragione naturalmente, ma non è facile decidere quali siano le priorità.
Con l’aiuto di quattro milites smontò la grossa pompa di sentina dalla sua sede alla base dell’albero di maestra, la fece calare con l’argano e trasportare sulla diga.
Ci volle quasi tutta la mattina per adattare e collegare le necessarie tubature ma alla fine il sistema funzionava perfettamente: due degli uomini vennero adibiti ad azionare la lunga leva e la pompa cominciò ad aspirare acqua dal fondo del bacino e a ributtarla in mare.
Sarebbero stati necessari molti giorni di lavoro per prosciugarlo del tutto, ma in realtà non era importante arrivare a tanto: quello che contava era contrastare le infiltrazioni ed evitare che si riempisse lentamente di nuovo.
Poi andò a cercare il pilus prior: – Aktis, puoi organizzare una squadra che si occupi della manutenzione della diga?
– Naturalmente, Caledonio, quanti uomini ti servono?
– Penso che una ventina divisi in due turni dovrebbero bastare. È incredibile che quel muro stia reggendo così bene, considerando la povertà di mezzi con cui l’abbiamo costruito, ma credo che ci convenga continuare ad accumularci sopra terra e sassi e batterli bene; durante l’alta marea rinforzeremo il fianco interno, mentre con la bassa marea lavoreremo su quello esterno.
– Sarà fatto. Darò ordine al mio optio di organizzare di persona le squadre e di occuparsi dei turni, ma non sarebbe stato meglio realizzare il muro in opus caementicium? D’accordo, sarebbe stato necessario più lavoro, ma così sarebbe stato più robusto e non avrebbe richiesto tanta manutenzione.
Certamente, – rispose Caledonio ridendo – ma temo che tu stia dimenticando qualcosa.
– Ah sì, e che cosa?
– Che fra un mese o due dovremo ripartire e questa diga dovrà essere demolita; e quando cominceremo ad abbatterla, bisognerà sbrigarsi, prima che risalga la marea. Già così sarà una bella impresa, anche impegnando tutte e tre le centuriae, smantellare tutta questa roba in poco più di tre ore, pensa se le pietre fossero cementate tra loro…
– Hai ragione, naturalmente. Va bene, smetto di dire sciocchezze e vado a cercare Quinto Modio perché organizzi le squadre.


Prima di dedicarsi al lavoro più delicato, Caledonio si occupò degli uomini che avrebbero dovuto pulire l’esterno dello scafo e verificò la carbonaia.
In quasi due anni dal momento del varo, la Inceptio aveva raccolto sul suo scafo una quantità di molluschi, alghe e incrostazioni varie; adesso che la chiglia era esposta all’aria aperta lo spettacolo era impressionante, e la puzza terribile. Questa era la migliore occasione per fare una pulizia generale, soprattutto considerando che tutta quella roba attaccata alla chiglia rallentava la nave e la rendeva meno manovrabile.
Il lavoro era semplice ma lungo e faticoso: lavorando di spatola, un piede dopo l’altro, bisognava raschiare via tutte le incrostazioni. Caledonio non sapeva per quale motivo venissero puniti i sei milites che stavano sudando sotto lo scafo, ma di sicuro dovevano aver fatto infuriare per bene i loro centurioni se erano stati assegnati a un compito così ingrato e sgradevole.
La costruzione del forno per la pece invece era una faccenda molto più delicata.
A una certa distanza dall’accampamento era stata accumulata nei giorni scorsi l’enorme quantità di rami che era stata tagliata dagli alberi utilizzati per puntellare la nave, oltre ai cespugli sradicati all’interno del castrum per liberare il terreno.
Una metà dei rami erano stati tagliati e spaccati in pezzi più piccoli, lunghi al massimo un palmo, e con questi frammenti era stata costruita una piramide tronca alta circa quanto un uomo.
Il terreno su cui poggiava la base della piramide era stato preventivamente spianato, lasciando solo una leggera pendenza, ed era stato lastricato con uno strato di pietre rozzamente tagliate e incastrate tra di loro.
L’enorme catasta di legnetti era stata poi coperta di zolle di terra in modo da formare una struttura approssimativamente semisferica, leggermente appiattita, con un’unica apertura di circa un piede di diametro nel punto più basso del lato a valle.
Ora, mentre Caledonio controllava l’operazione, alcuni milites stavano accumulando altra legna al di sopra e dietro la cupola di terra, in modo da formare un grande falò.
L’indomani questo sarebbe stato acceso e mantenuto alimentato per due o tre giorni. Se tutto andava bene, il fuoco avrebbe scaldato il contenuto del forno e il calore avrebbe dovuto trasformare i legnetti in carbone, liberando contemporaneamente la pece che sarebbe colata fuori dall’apertura negli appositi contenitori già preparati per questo scopo.
Era un’operazione difficile e pericolosa: se la cupola del forno fosse stata troppo spessa, il calore non sarebbe bastato a carbonizzare il legno al suo interno e tutto questo lavoro sarebbe stato inutile. Ma se la copertura fosse risultata troppo debole il calore l’avrebbe potuta spaccare e fessurare, e allora il fuoco avrebbe raggiunto la catasta di legnetti all’interno e tutto sarebbe scomparso in un’unica enorme pira.
Se i calcoli di Caledonio erano corretti, ed era lui stesso il primo ad ammettere che potevano essere sbagliati in quanto non si basavano sull’esperienza diretta ma solo su quanto aveva letto, avrebbero dovuto ottenere almeno otto congi di pece, che sarebbe servita a rivestire e impermeabilizzare lo scafo della nave dopo le riparazioni.


Non era più possibile rimandare l’inevitabile, e Caledonio si rassegnò ad effettuare la parte più pericolosa di tutta la procedura di riparazione: lo scioglimento degli hypozomata. Accompagnato da sei uomini dell’equipaggio, scese sotto il ponte a poppa e si avvicinò all’argano che li teneva in tensione.
Gli hypozomata erano due grossi cavi spessi circa due pollici ciascuno, che correvano per tutta la lunghezza dello scafo, da prua a poppa, al centro della nave subito al di sotto del ponte ed erano tenuti in tensione da questo argano. In condizioni normali, quando la nave era immersa in acqua, i cavi servivano a tenere compresse le tavole delle fiancate in modo da ridurre le infiltrazioni d’acqua, e soprattutto irrigidirne la struttura durante la navigazione per evitare che col mare mosso la nave si piegasse e si spezzasse in due.
Adesso, con la nave appoggiata su sostegni di fortuna, nessuno poteva sapere se non fosse proprio la tensione dei cavi a tenere insieme tutto lo scafo. Quello che Caledonio temeva era che, allentando gli hypozomata, la nave potesse deformarsi al punto da spezzare la chiglia; purtroppo non c’era alcun modo di saperlo senza provare, e dopo sarebbe stato troppo tardi per porvi rimedio.
Alea iacta est – Borbottò sottovoce mentre sganciava il fermo di sicurezza dell’argano. Con l’aiuto dei marinai, uno scatto per volta, fece compiere all’argano un giro prima di bloccarlo nuovamente.
Non era successo niente, la nave era ancora lì tutta intera.
Caledonio si rese conto che stava ancora trattenendo il fiato e lasciò sfuggire un sospiro di sollievo e un po’ per volta continuarono ad allentare i cavi. Ad un certo punto la nave scricchiolò in maniera sinistra e Caledonio ebbe la sgradevole impressione che il cuore gli volesse uscire dalle orecchie, ma la struttura della Inceptio resse e quindi i milites proseguirono nel loro lavoro finché i due cavi non restarono a penzolare inerti dall’argano.
Caledonio, sempre scrupolosissimo, fece il giro dell’intera stiva e poi dei banchi di voga, controllando che non ci fossero segni di deformazione o di crepe nelle fiancate della nave e poi, finalmente tranquillizzato, congedò i milites.


Con la nave finalmente in secca e i lavori di riparazione ben avviati, Dominico si decise ad autorizzare una spedizione di caccia nell’interno; dopotutto solo una quarantina o poco più di milites erano impegnati ad aiutare Caledonio nei lavori, e non era il caso di lasciare gli altri ad annoiarsi.
Bisognava anche rifornirsi di acqua. Non era ancora urgente, ma se dovevano restare su questo promontorio ancora per molto tempo avrebbero finito l’acqua potabile e non si vedevano fiumi nei dintorni; era indispensabile una ricognizione alla ricerca di sorgenti o ruscelli che permettessero di ricostituire le loro scorte.
Vennero quindi mandate tre spedizioni distinte, formate ciascuna da una cinquantina di milites, la prima verso sud, la seconda verso nord e la terza verso l’interno a est. Si mossero poco dopo l’alba, con l’ordine di esplorare il loro settore e tornare indietro se avessero trovato l’acqua, se avessero fatto una buona caccia o, comunque, entro l’ora decima.
La prima spedizione ebbe poca fortuna: il territorio loro assegnato risultò essere costituito per la maggior parte da una boscaglia compatta con un fitto sottobosco, disagevole e pericolosa da attraversare; a est e a sud sembrava continuare all’infinito, mentre a ovest prima di arrivare al mare si trasformava in una stretta striscia di bassa erba stenta e poi in una spiaggia sabbiosa.
Proseguirono faticosamente a zigzag in questo bosco interminabile, sudando abbondantemente dentro le loro loricae e i loro elmi, senza trovare nessuna traccia d’acqua corrente né selvaggina degna di questo nome. Alla fine dell’ottava ora si spostarono verso la spiaggia e tornarono tristemente a nord verso il castrum.


Andò molto meglio alla seconda squadra: verso nord il bosco era meno denso ma soprattutto con un sottobosco meno fitto e inframmezzato da qualche piccola radura erbosa, e quindi riuscirono ad attraversarlo molto più agevolmente.
– Antilopi, o forse bufali. – Doiros, uno dei milites che prima di arruolarsi nelle legioni aveva fatto il cacciatore nel nordovest della Gallia, indicò delle impronte nell’erba della radura.
Seguendo le tracce lasciate dagli animali si spinsero ancora un poco verso nord, e come speravano trovarono l’acqua: una grossa pozza, troppo piccola per chiamarla lago ma più grande di uno stagno, alimentata da un ruscello che proveniva da est.
– Dovremmo essere a non più di due o tre miglia di distanza dal castrum; – fece notare il centurione che guidava la squadra – siamo abbastanza vicini per trasportare i barili dell’acqua, anche se sarà una faticaccia.
Decisero quindi che lo scopo principale della missione era stato raggiunto, e dato che rimanevano ancora molte ore di luce stabilirono di appostarsi un centinaio di passi sottovento, nel caso venissero ad abbeverarsi quegli erbivori di cui avevano individuato le tracce.
Dopo un paio d’ore che aspettavano, l’idea della caccia non sembrava più così buona: – In fin dei conti l’acqua l’abbiamo trovata, – fece notare uno dei milites – non dovremmo tornare al castrum e dare la buona notizia? Dopotutto è per questo che siamo venuti fin qui.
Stavano ormai per decidersi a rientrare, quando videro arrivare un branco di una dozzina di antilopi dirette alla pozza per abbeverarsi. Il gruppo dei cacciatori si allargò silenziosamente per circondare il branco, e al segnale convenuto lanciarono i loro pila e si gettarono in avanti con i gladia sguainati a stringere il cerchio.
Sull’erba vicino alla pozza giacevano adesso le carcasse di undici antilopi, pesanti almeno centocinquanta librae ciascuna. – Belle bestie, – commentò Doiros – però così adesso abbiamo un altro problema: come le riportiamo al campo?
Alla fine tagliarono diversi grossi rami, a ciascuno dei quali legarono una preda per le zampe. Dopo di che si rimisero in marcia verso sud, con quattro milites a portare ciascuna antilope, come schiavi che trasportano una portantina.
Il centurione non era molto contento di avere quasi tutti gli uomini con le mani impegnate dal carico, e quindi impossibilitati a difendersi in caso di attacco: non si era mai vista una centuria in marcia con solo sei uomini in grado di portare le armi!
Comunque non capitò nessun incidente: il bosco sembrava deserto e arrivarono al castrum senza incontrare difficoltà, accolti dalle grida di apprezzamento dei loro compagni quando videro i risultati della caccia.


La terza squadra si diresse invece verso est, attraversando una prateria cosparsa di sterpaglie. Mentre avanzavano il terreno saliva gradualmente e i cacciatori procedevano divisi in squadre di cinque milites ciascuna e disposti su un fronte di circa duecento passi, in modo da coprire meglio il territorio. Non che ci fosse molto da vedere: erba, cespugli, qualche albero qua e là… Occasionalmente videro anche qualche traccia nell’erba che avrebbe potuto essere un sentiero lasciato da branchi di animali, ma non erano mai abbastanza evidenti da averne la certezza.
Era quasi mezzogiorno e si erano allontanati di circa otto miglia dal castrum quando l’optio Quinto Modio, uscendo da una macchia di alberelli, vide il villaggio.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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