Capitolo 25


Sami

Abbiamo appurato che i pastori di cervi chiamano se stessi sami e, per quanto posso capire, sembrano essere dello stesso popolo dei fenni che vivono nelle terre più a sud e a est di queste. Mancano dieci giorni alle Kalendae di November e, dopo più di un mese dal loro arrivo, le cose al nostro castrum sono molto cambiate.
Questi sami sono un popolo nomade, che vive soprattutto di caccia e dell’allevamento dei cervi che loro chiamano boazu. Sono cervi grossi, dalle zampe corte, e con degli enormi palchi di corna: ho visto degli esemplari di maschi adulti in cui i palchi erano più alti dell’animale stesso! Sono animali abbastanza docili, e i sami li utilizzano persino come animali da tiro, perlomeno i maschi castrati.
Sembra che tutta la vita dei sami ruoti intorno alla cura dei boazu, la ricerca dei pascoli per loro e la loro protezione. Ci hanno spiegato che tutti gli anni intere tribù si spostano verso nord con l’arrivo della primavera, fino alla costa di Oceano dove noi ora ci troviamo, e trascorrono qui l’estate sfruttando i pascoli aperti. Con l’arrivo delle nevi dell’autunno tornano a sud, dove passeranno l’inverno sulle coste del mare meridionale cacciando foche, volpi e altra selvaggina.
La nostra speranza di trovare accoglienza o assistenza in un villaggio qui nelle vicinanze è quindi naufragata immediatamente. I sami non hanno villaggi permanenti, passano tutto l’anno seguendo le loro mandrie e, durante l’inverno, queste coste dell’estremo nord rimangono completamente deserte.
L’altra cattiva notizia che ci hanno dato è la seguente: la nostra idea di dover sopportare tre o quattro mesi di inverno prima dell’arrivo della primavera era terribilmente ingenua; secondo i sami l’inverno a questo clima non solo arriva molto presto, ma dura molto più a lungo di quello che noi potevamo pensare. Secondo loro dalle prime nevi, che sono già arrivate, al disgelo primaverile possono passare da sei a otto lune, a seconda degli anni. Sette mesi di inverno!
Ne abbiamo parlato con il loro noaidi e il suo giudizio è stato drastico: noi non siamo abituati a vivere in queste terre, non abbiamo le abitudini e le conoscenze dei popoli hyperborei. Senza una provvista sufficiente di legna da ardere, abiti e ripari adatti e una scorta adeguata di cibo, non abbiamo la minima speranza di arrivare vivi a vedere la primavera.


Così, con l’aiuto dei pastori sami, stiamo imparando a vivere nelle terre dei ghiacci e dell’eterno inverno.
Il mese scorso ci hanno indicato i luoghi migliori per la caccia alla foca: con le scialuppe della Viatrix due squadre di dieci uomini ciascuna si sono dirette nei punti della costa che, a detta dei sami, sono quelli giusti per cacciare le foche. Non siamo riusciti a capire se intendevano dire che sono i posti dove la caccia è migliore, o se ci sono motivi rituali per cacciare solo in quelle zone; ad ogni buon conto abbiamo seguito le loro indicazioni e a sera le scialuppe sono tornate con a bordo le carcasse di otto foche dalla pelle grigio argentea a chiazze nere, del peso di quasi quattrocento librae ciascuna.
Il giorno successivo, mentre le scialuppe tornavano in mare per riprendere la caccia, i sami ci hanno mostrato come scuoiare e macellare le prede in modo da recuperare lo strato di grasso spesso diversi pollici che si trova sotto la pelle; facendo bollire lentamente questo grasso si ottiene un olio che i sami utilizzano sia come combustibile che per cucinare.
Inoltre ci hanno insegnato come utilizzare la pelle delle foche per realizzare delle calzature simili alle caligae ma più alte e robuste, come quelle che usano loro. Sono fatte apposta per tenere il piede asciutto e caldo, anche quando si cammina nella neve alta, e con tutte le foche che le squadre di caccia hanno riportato al castrum sembra di essere in una grande bottega di un sutor piuttosto che in un accampamento militare, con tutti i milites che lavorano per confezionarsi caligae di pelliccia.
Il nostro magister fabrum Caio Sertorio sta invece lavorando da molti giorni alla costruzione dei reaka.
La nostra maggiore preoccupazione per quando ci muoveremo da qui per marciare verso sud è la mancanza di carri per trasportare i materiali e, soprattutto, le provviste. D’altronde, anche se avessimo i carri e gli animali per trainarli, in queste terre non ci sono strade o sentieri e in un terreno basso e pieno di acquitrini come questo i carri sarebbero peggio che inutili.
L’arrivo dei sami ha permesso di risolvere anche questo problema: per trasportare i carichi durante le loro migrazioni stagionali usano quelli che loro chiamano reaka, che sono delle specie di carri senza ruote che appoggiano su delle lunghe tavole di legno ricurve. Queste tavole, che loro chiamano sabega, sono accuratamente piallate e vengono unte con olio di foca in modo da renderle scivolose e il reaka, poggiando su di esse, può essere trainato sulla neve, sull’erba o sul terreno fangoso quasi con la stessa facilità di un carro su una strata.
Caio Sertorio ha studiato con cura un reaka dei sami e si è messo al lavoro, aiutato da una dozzina di carpentieri e milites, per costruirne altre utilizzando il legname e i materiali recuperati dalla Viatrix: chiodi, staffe, cordami.
Ne hanno dapprima costruito uno e l’hanno collaudato con l’aiuto dei sami, divertiti dall’aspetto un po’ sgraziato della sua realizzazione, ma anche impressionati dalla velocità con cui l’aveva messo insieme; visto che il prototipo funzionava in maniera soddisfacente, si sono messi d’impegno a costruirne altri dieci uguali, e li hanno già quasi finiti.
Un’altra cosa che abbiamo cercato di copiare dai sami è il sistema che loro usano per spostarsi sulla neve: si tratta di due tavole di legno, abbastanza strette ma lunghe sei o sette piedi, che si legano sotto le loro caligae e permettono di muoversi senza affondare nella neve. I sami li chiamano sabega, come quelli su cui poggiano i reaka, e con questi oggetti attaccati ai piedi riescono a muoversi a velocità incredibili, facendo evoluzioni sulla neve con la stessa agilità e destrezza di un eques a cavallo.
Alcuni dei nostri milites hanno provato ad imitarli, con risultati a volte comici, altre volte disastrosi: il più bravo, o forse il più fortunato, è riuscito a percorrere una distanza di circa venti passi prima di ritrovarsi sdraiato nella neve con le gambe per aria. La maggior parte degli altri sono caduti prima ancora di riuscire a muoversi. In un paio di casi gli sfortunati sperimentatori hanno subito delle brutte distorsioni alle gambe e alle caviglie e secondo il nostro medico Dionyso sono stati fortunati a cavarsela senza fratture.
Abbiamo quindi deciso che per utilizzare i sabega devi essere un sami, che evidentemente hanno delle superiori capacità innate di equilibrio; oppure, forse, è una questione di abitudine: dopotutto loro cominciano a muoversi su questi attrezzi sin da bambini e quindi imparano a usarli mentre noi impariamo a camminare.
Comunque sia, è evidente che i sabega non sono fatti per noi! Ci hanno quindi consigliato di ripiegare su un altro metodo, che abbiamo chiamato “caligae nivariae”: sono costituite da un telaio di legno di forma ovale, di circa un piede per due, e da una rete di cordicelle di pelle o budello di foca che sostengono la caliga vera e propria.
Con queste caligae nivariae ai piedi è possibile camminare sulla neve senza affondare di più di qualche pollice. Faticosamente, perché un poco si affonda ugualmente: bisogna sollevare bene il piede, liberarlo dalla neve e poi appoggiarlo più avanti. Sembra di camminare nel fango, con il piede che ad ogni passo deve vincere il risucchio; correre è fuori discussione.
Però almeno ci possiamo muovere: i sami ci hanno avvertiti che lontano dalla costa verso l’interno, quando ci si avvicina al culmine dell’inverno ci sono punti in cui la neve può facilmente superare l’altezza di un uomo, per cui è indispensabile essere in grado di camminarci sopra.


Tutta questa fretta nel costruire i reaka, cacciare foche e realizzare caligae è giustificata da quella che è la vera grande notizia che ha risollevato il morale dei legionari: i sami hanno acconsentito ad accompagnarci verso sud, perlomeno fino al mare dove loro passeranno l’inverno, e persino a prestarci i boazu per trainare i reaka con le nostre provviste!
Non è che lo facciano per pura generosità, intendiamoci. Dal relitto della Viatrix abbiamo recuperato una quantità enorme di materiali: migliaia di librae di legname stagionato e tagliato, centinaia di librae di ferro e bronzo, migliaia di braccia di cordame, persino alcune delle armi dei milites morti durante l’ammutinamento o a seguito del naufragio.
Tutte cose che per loro sono preziose, e che noi comunque non saremmo in grado di portarci dietro in una marcia lunga e faticosa come quella che ci aspetta. Gli stessi reaka che ci permetteranno di trasportare le nostre provviste verso sud, diventeranno inutili per noi nel momento in cui abbandoneremo i sami e non avremo più i loro boazu a trainarli.
In conclusione, noi abbiamo queste incredibili ricchezze, ma siamo quasi il doppio di loro e siamo ben armati, quindi i sami non possono neanche prendere in considerazione l’idea di appropriarsene con la forza. D’altra parte noi potremmo facilmente sopraffarli e prenderci i boazu, ma non sappiamo come accudire questi animali e, soprattutto, non conosciamo le piste e i sentieri che portano verso sud; senza i sami a farci da guida non avremmo molte possibilità di sopravvivenza in questa pianura gelata.
Un accordo era quindi la soluzione più intelligente per entrambe le parti: ciascuno ha qualcosa che l’altro vorrebbe e che invece non è particolarmente importante per lui: noi non sappiamo che farcene di tutto questo materiale che a loro invece interessa moltissimo, mentre ai sami non costa quasi niente guidarci verso sud, visto che andrebbero comunque in quella direzione.
Naturalmente, come succede sempre in casi del genere, ciascuno cerca di tirare il più possibile sul prezzo, anche solo per una questione di principio. Le trattative tra Quinto Flavio, aiutato da Caio Segimondo come interprete, e il noaidi dei sami sono durate due giorni interi e sono terminate con un accordo che avrebbe potuto essere raggiunto in meno di un’ora: i sami ci accompagneranno fino all’estremità meridionale del mare di ghiaccio, come lo chiamano loro, fornendoci anche i boazu necessari per trainare i nostri reaka, mentre noi all’arrivo lasceremo loro i reaka stessi e praticamente tutto quel materiale che non avremmo comunque potuto trasportare oltre quel punto.
In realtà, come mi ha spiegato in seguito Segimondo, queste estenuanti trattative sono quasi un rituale tra i barbari del nord: se una delle due parti cedesse troppo rapidamente alle richieste dell’altro, darebbe l’impressione di essere disperato, o di avere intenzione di imbrogliare. Una lunga discussione sui termini dell’accordo serve a convincere entrambi della bontà dell’affare e della buona fede della controparte.
Alla fine l’accordo è stato raggiunto e alle Kalendae di November partiremo verso sud. Secondo i sami ci vorranno due lune per raggiungere il mare di ghiaccio e almeno un’altra luna e mezzo per arrivare alla sua estremità meridionale; più di tre mesi di viaggio, il che significa che dovremmo arrivare laggiù, dovunque sia questo mare di ghiaccio, nel mese di Februarius del prossimo anno.


Vorrei dire ancora qualcosa a proposito del titolo di noaidi dei sami: all’inizio avevo pensato che si trattasse di una specie di capo della tribù, ma non ne sono più così certo.
Per quanto posso capire, il noaidi è più un sacerdote che un capo. È il responsabile del benessere sia spirituale che materiale della tribù: è lui che viene interpellato per sapere quale tipo di sacrificio effettuare quando qualcuno dei sami o dei loro boazu si ammala, o per invocare una buona stagione di caccia o una primavera fertile; viene anche richiesto il suo parere quando bisogna prendere decisioni importanti su cui non si riesce a raggiungere un accordo.
Il noaidi non determina queste cose secondo formule predefinite come i sacerdoti romani, ma mediante un accesso diretto al saivo, il mondo degli spiriti, anche se non sono sicuro se con questa parola intenda gli dèi o gli spiriti degli antenati, o forse entrambe le cose assieme. Per entrare in contatto con il saivo il noaidi usa uno strumento che chiamano kannus che è una specie di tympanum, come quello utilizzato nei riti della Magna Mater, con la pelle decorata da intricati disegni e simboli.
Per questa sua funzione di collegamento tra il mondo dei vivi e il saivo credo che la carica a cui il noaidi sia più assimilabile sia quella del pontifex dei romani, un ponte tra gli uomini e gli dèi, tra il naturale e il soprannaturale.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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