Capitolo 7


Gallia

Si dice che anche il più lungo dei viaggi cominci con il primo passo, e il sottinteso è che l’inizio sia sempre o almeno usualmente la parte più difficile. Nel nostro caso temo proprio che non sarà così.
Partendo da Olisipo in una mattina di metà Martius abbiamo davanti a noi un lungo viaggio, che nella sua parte iniziale sarà certo più agevole di quanto ci aspetterà in seguito: infatti le prime duemila miglia saranno percorse lungo terre conosciute, costeggiando le province di Hispania e quelle di Gallia con la possibilità di fermarci in tutti i porti che incontreremo, nella certezza di essere bene accolti. È solo dopo che avremo superato la Gallia e la Germania Inferior, passata la foce del Rhenus, che comincerà la terra incognita: prima la Germania Magna di cui sappiamo poco e poi i paesi di altri popoli dei quali conosciamo a malapena i nomi e a volte, forse, neanche quelli.
Questa prima parte del viaggio per me e per i miei assistenti è quasi un viaggio di piacere: non abbiamo alcun bisogno di cartografare le coste della Gallia che sono già ben note e non abbiamo altri compiti ufficiali a bordo. Facciamo qualche misurazione, più per controllare la precisione dei nostri strumenti che per verificare la nostra effettiva posizione o velocità e per il resto cerchiamo di sembrare ragionevolmente occupati per evitare che l’equipaggio ci tratti da fannulloni. Ma la verità è che per ora gli unici nostri compiti sono mangiare, dormire e aspettare.
Durante un viaggio in mare il tempo passa lentamente. Non sto a chiedervi se qualcuno di voi ha mai viaggiato su una nave come questa: a parte la gemella Inceptio, non esistono altre navi come questa.
Naturalmente è probabile che qualcuno di voi abbia viaggiato come passeggero su una delle grandi onerariae che attraversano in continuazione il Mare Internum, ma si tratta di un’esperienza completamente diversa. L’oneraria ha un ponte che la ricopre completamente ed è quindi come divisa in due mondi diversi: sotto coperta c’è la stiva con le merci trasportate, le scorte e l’attrezzatura della nave, il ponte invece è occupato quasi esclusivamente dai passeggeri; l’equipaggio è composto da una dozzina o poco più di marinai che non sono particolarmente interessati a socializzare con voi, e che comunque sono impegnati quasi a tempo pieno nelle manovre da cui dipende il vostro viaggio e la vostra vita.
Il passeggero di un’oneraria si ritaglia il proprio piccolo spazio sul ponte, si allestisce un riparo con una tenda per proteggersi dal sole o dalla pioggia e ci si rinchiude dentro per tutta la durata del viaggio, che in genere va dai dieci ai venti giorni, a parte i brevi periodi in cui ne deve uscire per usufruire della cambusa o delle latrine.
Se invece siete tra i pochi che hanno avuto occasione di essere trasportati da una navis longa, probabilmente una trireme o una quinquireme, la situazione è completamente diversa: queste navi da guerra, concepite per la massima velocità e capacità di manovra, non hanno una stiva e nemmeno un vero e proprio ponte.
L’interno dello scafo, che in un’oneraria è riservato al carico, in una trireme è stipato di remiges che ne occupano praticamente tutto lo spazio disponibile. Per non costringerli a remare chiusi all’interno di una scatola di legno, il ponte è sostituito da teloni che permettono di proteggere i remiges dal sole e dalla pioggia come i velabra dei teatri, e da una passerella al centro della nave, larga due o tre cubiti al massimo, che collega la piattaforma di prua a quella di poppa.
A prua c’è spazio per forse sette o otto persone, mentre a poppa ce ne possono stare al più una trentina; considerando che l’equipaggio, oltre ai remiges, è formato da trenta marinai, è chiaro che rimane ben poco posto per eventuali passeggeri. Inoltre durante la navigazione questi sono obbligati a stare seduti o sdraiati per non compromettere il precario equilibrio della nave, troppo leggera e stretta per essere davvero stabile.
A bordo di una navis longa non si mangia, difficilmente si può riuscire a dormire, non si parla con i compagni di viaggio: si resta lì, seduti in un angolo della piattaforma di poppa, cercando di non stare tra i piedi a nessuno, e si aspetta con pazienza la prossima sosta.
Sì, perché le trireme, a differenza delle onerariae, raramente viaggiano per più di sei o sette ore consecutive e, a parte casi eccezionali, non viaggiano di notte. Una traversata a bordo di una trireme si traduce quindi in una successione di giornate passate a navigare sotto costa, approdando intorno a mezzogiorno per mangiare e spiaggiando la nave la sera per accamparsi a riva per la notte. E sarà meglio che le soste siano vicino a dei centri abitati dove si possa acquistare del cibo, perché la trireme, a differenza delle navi d’alto mare, non porta provviste a bordo.
Riassumendo: chi viaggia come passeggero su un’oneraria si trova su una nave, ma fa di tutto per portare intorno a sé un pezzettino di terraferma; mentre chi viene trasportato da una trireme passa più tempo a terra che a bordo della nave, ma probabilmente prima della fine del terzo giorno di viaggio si sta già domandando se non avrebbe fatto meglio a fare il tragitto a cavallo.
Viaggiare sulla Viatrix, una delle due uniche navis spuriae mai costruite, è un’esperienza di tutt’altro genere. Tanto per cominciare è grande! A prima vista sembra una trireme un po’ ingrassata: è appena un po’ più lunga, ma un bel po’ più larga e, anche se quando è in acqua non lo si nota facilmente, è anche molto più profonda.
Queste maggiori dimensioni fanno sì che la Viatrix abbia una stiva vera e propria, in parte al di sotto dei banchi di voga e in parte al centro, tra i thalamioi dei banchi di destra e quelli di sinistra, e ha anche un ponte quasi completo o, se preferite, la stretta passerella centrale della trireme nella Viatrix è molto più ampia, fino a otto cubiti nel punto più largo; inoltre la piattaforma circolare di diciotto cubiti di diametro, al di sopra del castello di poppa, fornisce un ulteriore spazio per l’equipaggio e i passeggeri.
La presenza di una stiva fa sì che la nostra nave possa portare con sé le attrezzature e le scorte di materiali necessari per un viaggio che durerà diversi anni, oltre alle provviste per sfamare il suo equipaggio per trenta o quaranta giorni; questo vuol dire che non siamo obbligati a fermarci una o due volte al giorno per procurarci da mangiare ma, almeno in teoria, potremmo rimanere in navigazione continua per un mese o più.
Naturalmente c’è il problema di dove mettere a dormire i duecentosettanta membri dell’equipaggio, ma in caso di necessità i remiges possono dormire in due o tre turni sul ponte centrale. Così la nave può proseguire ininterrottamente per diversi giorni il suo viaggio spinta da un solo ordine di remi per volta e dalle vele dei suoi tre alberi, naturalmente se il vento è favorevole e quando c’è la luna a illuminare le notti. Nessuno sarebbe così folle da proseguire la navigazione in acque sconosciute senza poter vedere dove si sta andando.
Per noi astrologi e mathematikoi in genere, vivere a bordo di questa nave è un’esperienza abbastanza piacevole e comoda: abbiamo il nostro spazio sul disco di poppa, dove abbiamo installato i nostri strumenti e banchi di lavoro e dove di fatto trascorriamo la maggior parte del tempo. Quando le condizioni meteorologiche lo permettono dormiamo sotto una tenda sul ponte mentre se piove o soffia vento freddo possiamo ripararci al di sotto del disco, nella zona poppiera in cui sono ospitati anche la cambusa e il valetudinarium.


Non avendo la necessità di sostare tutti i giorni per mangiare e dormire, Clearco ha deciso di continuare la navigazione effettuando il minimo indispensabile di scali per rifornirci di provviste. La sua non è una scelta sbagliata: vuole raggiungere e superare l’Oceanus Germanicus prima che arrivi l’inverno.
Clearco non è uno sciocco e sa che procedendo verso nord andremo verso il freddo. Anche se lui è come me un uomo delle terre del sud, tutti sanno che nelle regioni settentrionali gli inverni sono più rigidi e durano più a lungo; la sua idea è di attraversare i mari settentrionali il più presto possibile e tornare verso sud, nel tratto di Oceano che bagna la Seria, prima che arrivi l’inverno e che la navigazione diventi impossibile.
Se riuscirà nel suo intento potremo svernare in Seria, e poi navigare verso l’India e da lì al Sinus Arabicus nel corso della prossima primavera e incontrarci in estate con la Inceptio sulle coste orientali dell’Egitto.
Si tratta di un progetto ambizioso, perfettamente in carattere con la personalità del nostro trierarca, che richiederà molti sforzi e molti sacrifici ma che effettivamente potrebbe essere coronato da successo. Come dicevo prima, ci sono ottimi motivi per ritenere che il tragitto per arrivare in Seria passando da nord sia molto più breve di quello che passa da sud aggirando l’Africa; non è quindi impossibile che le nostre due navi arrivino contemporaneamente nei mari dell’India o addirittura in vista delle coste dell’Arabia Felix.
E quindi partiamo dalla calda Olisipo impegnati in una corsa contro il tempo: la Viatrix percorrerà questo primo tratto del suo viaggio alla massima velocità possibile, in modo da battere sul tempo l’inverno nell’aggirare l’Oceanus Germanicus e le terre del nord. Contando sulle ampie provviste che portiamo nella stiva e approfittando delle condizioni favorevoli del mare percorriamo circa mille miglia in soli undici giorni, ignorando i porti accoglienti di Brigantium e Portus Amanum e passiamo così senza fermarci attraverso tutta la costa di Hispania fino a Burdigala in Gallia Aquitania.
Qui, dopo aver risalito la corrente del lungo estuario del fiume Garumna, ci possiamo riposare e rifocillare per un paio di giorni nel grande porto mentre la nave viene nuovamente rifornita e poi via di nuovo, di corsa, verso nord.
Passiamo Condevincum al confine con la Gallia Lugduniensis, Darioritum all’inizio dell’Armorica. Superiamo senza fermarci anche Aleth e proseguiamo fino a Gesoriacum, nella Gallia Belgica, dove finalmente ormeggiamo a Portus Itius dopo altre duemila miglia di viaggio percorse in ventitré giorni, il quattordicesimo giorno delle Kalendae di Maius.
Arrivare a Gesoriacum dal mare prelude a una delusione. Perché la prima cosa che il viaggiatore vede è il porto, grande, moderno, funzionale. Si dice che Portus Itius sia stato costruito da Giulio Cesare per la flotta con cui ha invaso la Britannia, e da allora è stato mantenuto in ottime condizioni di efficienza in quanto è il più grande dei porti romani sull’Oceanus Britannicus.
Poi il nostro visitatore, nella fattispecie il sottoscritto, scende dalla nave e si guarda intorno cercando la città di Gesoriacum, e non la trova. Tutto quello che c’è da vedere oltre al porto è un castrum, nemmeno tanto grande, e una specie di villaggio costruito a ridosso del suo fossum.
Così adesso siamo ospiti del castrum per tre o quattro giorni, mentre la Viatrix viene rifornita e attrezzata per il proseguimento del viaggio. L’equipaggio non si lamenta troppo della sistemazione che abbiamo ottenuto: sono tutti veterani delle legioni e quindi sono perfettamente abituati alla vita del campo; naturalmente anche loro avrebbero preferito fermarsi in una città vera, con popinae e lupanaria in cui spendere un po’ della loro paga, ma gli anni e anni di addestramento e di servizio hanno immediatamente preso il sopravvento e nell’arco di poche ore erano già organizzati nelle loro tende, con i loro fuochi per cucinare e con i loro dadi per tentare Fortuna.
Io che invece vengo da una vera città e che non sono abituato alla vita militare, trovo che questo posto sia una fogna; al confronto di Gesoriacum, persino Burdigala, con il suo piccolo foro e i suoi modesti edifici pubblici, sembrava una grande città! Il pensiero che questo posto sia meglio di quanto potremo sperare di incontrare nei prossimi mesi di viaggio è deprimente.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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