Capitolo 1


Libri, codices e tituli – Il copista – Il citrarius

Roma, a.d. III Non. Apr. 809 AUC

– Carissimo Aquillio Tusco, è un onore averti qui nel mio modesto laboratorio.
Caio Arrio Emiliano era un liberto sui quarant’anni; di origine greca, non era molto alto, appena cinque piedi e un palmo, e aveva i capelli ancora nerissimi tagliati corti. Stava riordinando un mucchio di libri riponendoli nelle loro paenulae, le custodie di pelle, ma interruppe immediatamente il lavoro per precipitarsi ad accogliere l’illustre e facoltoso cliente che era appena entrato nella sua bottega.
– È sempre un piacere per me passare a trovarti, Emiliano. Nella tua taberna hai sempre qualche libro interessante o qualche novità da propormi; e questo, come sai, è un argomento che non mi lascia indifferente.
Il nuovo arrivato, un patrizio di mezza età, si stava aggirando nella parte anteriore del negozio che dava sulla strada affollata, guardando i vari oggetti, prevalentemente libri, esposti o accatastati qua e là. Una tenda separava la parte pubblica dal retrobottega dove si trovavano il magazzino e il laboratorio in cui lavoravano gli schiavi copisti.
– In realtà sono venuto soprattutto per chiederti se puoi procurarti i libri dello Stagirita sull’etica e sulla politica, – continuò Aquillio – e farmene realizzare una copia.
– Ma certo, credo che non ci saranno difficoltà ad averli, me li farò prestare da una biblioteca; appena li avrò ottenuti ti farò sapere quanto tempo ci vorrà per avere le copie. Purtroppo abbiamo di nuovo qualche difficoltà con gli approvvigionamenti di pergamena: nell’ultimo anno è già la terza volta che i miei fornitori mi dicono che hanno quasi finito le scorte. – Emiliano scrollò le spalle: – Non so se ci sia veramente carenza, o se sia solo un loro espediente per far aumentare i prezzi.
– Non preoccuparti, non ho particolarmente fretta e, per quanto riguarda il prezzo, sai che non mi sono mai lamentato; quello che conta è che la qualità del lavoro sia buona… E questi cosa sono, se posso chiedertelo? – Chiese, indicando il contenuto di una scatoletta di legno aperta, posta su un banco della bottega. La scatola conteneva diverse dozzine di piccoli rettangoli di pergamena, tutti con la stessa scritta e un piccolo disegno sempre uguale.
– Ah, niente di particolare, – rispose Emiliano – sono semplicemente dei tituli: sai, le targhette che si legano alle custodie dei libri per indicarne il contenuto. Dato che l’indicazione dell’opera si scrive sempre solo sul recto del titulus, ho pensato di preparare in anticipo questi codicilli con l’indicazione del mio laboratorio. Così, quando copiamo un libro, il verso del titulus riporta il mio indirizzo.
– Curioso però: sono tutti perfettamente uguali tra loro. Devi avere un copista veramente bravo per farne tante copie identiche!
– Beh, in realtà non sono opera di un copista. – Emiliano sembrava leggermente imbarazzato: – Le scritte e il disegno sono state realizzate con una nuova tecnica, che io chiamo imprimitura, che permette di realizzare molte copie identiche dello stesso testo. È un metodo che imparai molti anni fa da un filosofo di Alexandria, e recentemente mi è venuta l’idea di sfruttarla per imprimere questi tituli che vedi qui.
– Interessante. Immagino che si potrebbero trovare delle altre applicazioni per questa nuova tecnica, ammesso che il costo sia inferiore a quello della copia effettuata con i metodi usuali.
– Vedi Aquillio, è proprio questo il problema: per imprimere questi tituli ci vuole una frazione minima del tempo che sarebbe necessario per copiarli uno per uno, ma la preparazione iniziale richiede molto tempo. È quindi una tecnica che può essere conveniente se devi fare molte dozzine, possibilmente centinaia, di copie uguali, ma diventa terribilmente poco pratica se ne vuoi realizzare solo poche.
– Capisco. Quindi forse quello che hai trovato tu è davvero l’unico uso possibile per questa imprimitura. Non sarebbe molto pratico utilizzarla per copiare interi libri, – rise – a meno che tu non riesca a vendere dozzine e dozzine di copie dello stesso libro tutte insieme.
– Temo di sì. – Rispose Emiliano con un sorriso mesto: – D’altra parte forse è meglio così: quella del copista è in se stessa una forma d’arte. Se cominciassimo a produrre libri in questo modo, sarebbe probabilmente più una perdita che un guadagno: non ci sarebbero più le piccole differenze di calligrafia, la regolarità della spaziatura, il bilanciamento della pagina a distinguere una copia dall’altra e il lavoro di un vero artista da quello di un principiante. Come potrebbe un bibliofilo appassionarsi ai propri libri se queste differenze sparissero, e tutte le copie di uno stesso libro fossero identiche tra loro? È vero che quello che più conta è il testo riportato nel libro, ma anche l’occhio vuole la sua parte. – Emiliano appoggiò la scatola al suo posto sul tavolo: – Ma parliamo d’altro; se come dicevi prima ti interessano le novità, ho una cosa da farti vedere.
E così dicendo prese un oggetto da un ripiano e lo mostrò ad Aquillio. A prima vista, sembrava una solida lastra di legno di olivo, di forse due palmi per tre e spessa due pollici o poco più. Su una delle superfici laterali erano incise le lettere greche ΙΛΙΑΣ – I·XII.
Il patrizio prese in mano lo strano oggetto e commentò stupito: – È più leggero di quanto pensassi, non è di legno massiccio. – Guardando meglio vide che si trattava di una specie di scatola: le sei facce erano ingegnosamente collegate tra loro da delle piccole cerniere di bronzo e, sulla faccia opposta alla scritta una fibula, anch’essa realizzata in bronzo, chiudeva il tutto.
– Questo che vedi, Aquillio Tusco, è il futuro del libro o, se preferisci, il libro del futuro. – Ripresa la scatola dalle mani del patrizio, Emiliano sganciò la fibula e aprì rapidamente quattro lati della scatola, mostrandone il contenuto: – Si tratta di quello che chiamano pugillares membranei, o anche codex: un guscio di solido legno che racchiude decine di pagine scritte, legate tra loro.
All’interno della scatola, che era costituita da sottili tavolette di legno, c’erano infatti diverse dozzine di pagine di pergamena coperte di scrittura in caratteri greci. Le pagine non erano incollate tra loro a formare un rotolo come nei libri normali, ma erano cucite in qualche modo tutte insieme lungo un solo lato. – Come puoi vedere Aquillio, si tratta davvero di un libro. In realtà in questa piccola scatola ci sono tutti i primi dodici libri dell’Iliade di Omero, nello stesso spazio in cui potresti far stare a malapena due libri tradizionali.
– E come si fa a leggere un libro di questo tipo? Voglio dire: non lo puoi srotolare nel modo normale ma… – Aquillio era visibilmente perplesso.
– Beh, effettivamente per leggerlo ci vuole un minimo di pratica: una volta aperta la custodia si legge normalmente, basta ricordare che invece di srotolarlo per passare da una pagina all’altra bisogna girarla in questo modo. – Disse, mostrandogli come sfogliare le pagine – Una volta che ci hai fatto la mano, non è più complicato che svolgere un libro pagina per pagina.
– Può essere che tu abbia ragione… ma che vantaggio avrebbe rispetto ai libri normali?
– Ne ha molti. In primo luogo, come ti dicevo prima, occupa molto meno spazio: in parte perché le pagine sono compresse insieme e quindi impacchettate in maniera più efficiente, in parte perché la pergamena viene scritta su entrambi i lati e quindi a parità di lunghezza del testo basta la metà delle pagine. Inoltre, quando la custodia è chiusa, questo libro è praticamente indistruttibile: se dovesse capitare un terremoto e tutta l’insula ci crollasse in testa, – entrambi piegarono tre dita della mano sinistra in segno di scongiuro – questo libro resterebbe intatto sotto le macerie, mentre i rotoli che vedi qui intorno verrebbero schiacciati e strappati. Infine, – aggiunse – hai presente cosa possono fare i topi e i ratti a un libro tradizionale?
Il patrizio rabbrividì all’idea. Da bibliofilo qual era sapeva che i peggiori nemici di una biblioteca, grande o piccola che fosse, erano i ratti e l’umidità. I primi consideravano un libro come un ottimo antipasto; la seconda poteva far marcire in poche settimane anche la migliore delle pergamene, non parliamo poi del papiro.
– Non so Emiliano, non sono del tutto convinto. Credo che in genere sia sempre meglio restare legati alla tradizione. Temo che, trascritto in uno di questi codices, un libro perderebbe parte della sua personalità: dopotutto se Omero ha scritto l’Iliade in ventiquattro libri e tu li riunisci in solo due codices, non stai forse alterando l’integrità del testo originale? – Il patrizio aveva chiaramente difficoltà a tradurre in parole quello che provava: – E poi, come dicevi prima tu a proposito della copia e dell’imprimitura, anche l’occhio vuole la sua parte. Pensa solo alle sensazioni che un libro dà, al di là del testo che contiene: il peso, la consistenza della pergamena, il fruscio che produce quando lo srotoli; tutte queste cose sparirebbero se al posto del libro tu avessi in mano un codex come questo.
– C’è sicuramente del vero in quello che dici, Aquillio Tusco, ma come puoi essere sicuro che non sarebbero cambiamenti in meglio? Non sempre le innovazioni sono negative: lo so che molti qui a Roma invocano un ritorno al mos maiorum, ma non credo che queste stesse persone sarebbero liete di vivere davvero secondo i costumi degli antenati, nel mondo com’era trecento o quattrocento anni fa. Certo, è facile parlarne quando si discute della pietas e della gravitas, ma vorrei vederli ad abitare in una capanna invece che in un palazzo… – Emiliano si interruppe, come se si fosse ricordato solo allora con chi stava parlando: un patrizio di ceto senatoriale, cioè proprio un rappresentante di quella classe che invocava a gran voce il ritorno alle tradizioni antiche.
Il patrizio però non diede segno di essere offeso o turbato da queste parole: – Potresti aver ragione, Emiliano, ma voglio pensarci un po’ su. Facciamo una cosa: quando ti sarai procurato quei libri che ti ho chiesto, chiamami prima di iniziare a copiarli. Nel frattempo penserò a quello che mi hai appena fatto vedere e magari ti chiederò di fare un codex con le opere di Aristotele, invece che dei libri. Vale.


Dopo che Aquillio se ne fu andato, Emiliano chiamò dal retrobottega il sovrintendente dei copisti, un liberto abbastanza avanti negli anni di cui si fidava quasi ciecamente: – Tito, – gli disse appena questi arrivò – devo andare a trovare Marco Lollio; ti affido la bottega fino al mio ritorno. Mi raccomando tieni sempre gli occhi ben aperti e, se qualcuno mi cerca, dì pure che sarò di ritorno entro l’ora nona.
La bottega di Emiliano si trovava sull’Argiletum, circa a metà strada tra la Suburra e il Foro. Il suo socio Caio Arrio non aveva avuto figli e l’anno precedente, poco prima di morire, lo aveva formalmente adottato facendone il suo unico erede. Così Emiliano, liberto poco più che quarantenne, si era ritrovato unico proprietario di una bottega bella e di una certa fama, e di una dozzina di schiavi tra copisti e operai vari.
Uscito nella calca della strada principale, Emiliano si fece largo in direzione della Suburra per raggiungere il laboratorio di Lollio, il citrarius. Questi era un ometto basso e tozzo, quasi pelato, che si muoveva continuamente, come se avesse paura di perdere tempo restando fermo.
– Buon giorno Marco Lollio, come ti vanno le cose?
– Bene Caio Arrio, e spero anche a te. A cosa devo l’onore della tua visita?
– Ero venuto a chiederti se mi puoi realizzare altre tre custodie per codices uguali alle due che mi hai fatto il mese scorso. Il lavoro era molto ben fatto, anche se devo dire che il prezzo era un po’ eccessivo: non so se potrò permettermi di pagare ancora venti sesterzi per ciascuna. Dopotutto, adesso che hai realizzato le prime, le altre dovrebbero essere più semplici da costruire visto che puoi seguire lo stesso disegno.
– Hai ragione e capisco che tu trovi il prezzo un po’ alto. D’altra parte la costruzione di ciascuna di quelle custodie richiede un mucchio di lavoro: a parte le cerniere e la fibula, che non costano più che tanto, ciascuno dei pezzi dev’essere tagliato e piallato perfettamente a misura per combinarsi con gli altri; gli incastri degli spigoli devono essere lavorati con precisione per evitare che la scatola si apra da sola; il dorso dev’essere accuratamente scavato per accogliere i perni che fissano il codex: insomma è un lavoro di precisione che richiede una gran quantità di tempo per essere fatto a dovere.
– Capisco, – ribatté Emiliano – ma è pur sempre un lavoro che farai fare ai tuoi schiavi, no? Una volta progettati i pezzi l’impegno del tuo tempo nella costruzione dovrebbe essere molto più limitato, o sbaglio?
– Temo che ti sbagli: – Marco aveva un’espressione mesta in viso – tu conosci, è vero, il mio schiavo Settimo? È un ottimo lavoratore, estremamente preciso nei lavori più delicati ma, purtroppo, ha l’intelligenza di un pollo, e neanche di un pollo molto sveglio! Gli posso dire di piallare una tavola fino a un certo spessore, oppure posso dirgli di tagliarla a misura; se gli dico di fare entrambe le cose già si confonde per l’ordine troppo complicato.
– Ma se è così incapace, perché affidi a lui il tuo lavoro? – Chiese Emiliano chiaramente perplesso: – Non potresti comprare qualche schiavo più intelligente?
– E dove lo trovo uno schiavo intelligente e con le capacità manuali di Settimo? – Sbottò Marco: – Ti assicuro che di operai così abili con la pialla e lo scalpello ne ho conosciuti ben pochi. Nei lavori normali, la sua scarsa intelligenza non è un grande problema: ad esempio, se lo metto a lavorare una tavola per fare la parete di un’arca, può passarci sopra un’intera giornata senza bisogno di supervisione. Il problema del lavoro che mi chiedi tu è che per fare una di quelle custodie bisogna realizzare tanti piccoli pezzi, tutti diversi tra loro e ciascuno con diversi incastri e smussi. Ciascuna lavorazione richiede relativamente poco tempo, e quando Settimo l’ha finita viene da me a chiedere cosa deve fare adesso; questo significa che qualunque cosa io stia facendo, vengo continuamente interrotto. Capisci quindi che nella realizzazione di quelle custodie si consuma una quantità non indifferente anche del mio tempo e della mia attenzione.
– D’accordo Lollio. – si rassegnò Emiliano: – Dimmi qual è il prezzo migliore che riesci a farmi per queste tre nuove custodie e quando potresti consegnarmele.
– Direi che te le posso far avere per le Kalendae di Maius; per il prezzo… dici che ci possiamo accordare per diciotto sesterzi ciascuna?
– In verità, – provò a contrattare Emiliano – io speravo di farti scendere almeno a quindici…
– Sedici sesterzi ciascuna e non ne discutiamo più, d’accordo? – Concluse Marco Lollio: – Dodici denarii in totale.
– D’accordo, – approvò Emiliano con un sospiro – quando saranno pronte fammelo sapere che manderò qualcuno a ritirarle. Ave atque vale, amico.


Emiliano ritornò verso la taberna sull’Argiletum immerso nei suoi pensieri: c’era qualcosa in questa faccenda di cui gli aveva parlato Lollio, la questione del tempo perso per seguire il lavoro dello schiavo, che non riusciva a chiarire bene. Era sicuro che ci dovesse essere una soluzione migliore al problema, ma così su due piedi non riusciva a immaginare quale potesse essere.
Tutto questo gli riportava però alla mente un problema su cui aveva spesso meditato: i romani erano in genere abituati a considerare il lavoro fatto dagli schiavi come gratuito. A differenza di quello di un lavoratore salariato, il lavoro di uno schiavo non veniva retribuito, e quindi erano abituati a non considerarlo come un costo. Però gli schiavi andavano vestiti, alloggiati e nutriti, e questo comportava spese; quindi si sarebbe potuto dire che il costo del lavoro di uno schiavo fosse quello del suo mantenimento suddiviso tra tutti i lavori che faceva. Se a questo si aggiungeva poi anche il prezzo pagato per il suo acquisto e il tempo perso dal padrone in supervisione, come si poteva ancora pensare che il lavoro degli schiavi non costasse nulla?
Ultimamente a Roma c’erano persino alcuni che sostenevano che, dato che uno schiavo non ha alcun interesse a che il suo lavoro sia fatto bene o rapidamente, il lavoro di un uomo libero costerebbe addirittura di meno del lavoro servile e che sarebbe stato nell’interesse della Repubblica abolire la schiavitù, spingendo così gli ex schiavi a lavorare meglio per potersi guadagnare il pane. Emiliano non riusciva a credere che questo fosse possibile, ma riconosceva che il ragionamento aveva dei punti a suo favore. Chissà cosa avrebbe riservato il futuro?
Inoltre, parlare con Aquillio Tusco della tecnica dell’imprimitura aveva smosso altri ricordi: “Un filosofo di Alexandria” gli aveva detto. Forse filosofo non era la parola giusta, ma a volte si domandava cosa ne fosse stato del vecchio Gregorios.
Trent’anni prima…

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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