Prologo


“aut quid non miraculo est, cum primum in notitiam venit? quam multa fieri non posse prius quam sunt facta iudicantur?”
“Infatti, cos’è che non appare meraviglioso quando viene conosciuto per la prima volta? E quante cose sono considerate impossibili prima di essere davvero realizzate?”
Gaius Plinius Secundus, Naturalis Historia Libro VII paragrafo VI

Bononia, a.d. VIII Kal. Oct. 2766 AUC

Alla morte di Ottaviano, nel 731° anno dalla fondazione dell’Urbe, la Repubblica di Roma si trovò a un bivio: da un lato le tensioni, mai completamente sanate, tra il potere dell’aristocrazia patrizia e i demagoghi sostenuti dall’appoggio del popolo, dall’altro il ricordo ancora ben vivo dei lutti causati da decenni di guerre civili e il terrore di ricadere in una simile situazione.
Fu in questo momento di incertezza che due uomini riuscirono, praticamente da soli, a riorganizzare le istituzioni pubbliche in modo tale da riportare la pace sociale. Ed è per questo motivo che a Marco Vipsanio Agrippa e Lucio Calpurnio Pisone venne allora riconosciuto il titolo di “Padri della Patria”, e che come tali sono onorati ancora oggi.
È difficile per noi oggi, a tanti secoli di distanza e in questa epoca di pace, calarci nei panni dei cittadini romani di allora. Per qualcuno, soprattutto nella grande massa della plebe urbana, la prospettiva di una guerra poteva essere un’occasione: la possibilità di fare carriera, e guadagnare bottino di saccheggio, entrando nelle legioni; ma, per la maggior parte dei cittadini, nuove guerre civili avrebbero portato solo incertezza e carestia.
Anche alla classe mercantile, con alcune eccezioni, la guerra avrebbe portato soprattutto svantaggi: calo dei commerci, il rischio costante di vedersi espropriate le proprie merci per le necessità militari, il pericolo concreto di trovarsi dalla parte sbagliata del conflitto in un momento cruciale; il commerciante o l’artigiano che scappa da una città minacciata di assedio si deve lasciare dietro tutto quello che gli permette di svolgere la sua attività, riducendosi di fatto a un mendicante.
Molto diversa la situazione per i proprietari terrieri. Un esercito in marcia può distruggere o confiscare il raccolto di un intero anno e può fare ingenti danni alle proprietà, ma la terra rimarrà sempre lì e, a guerra finita, potrà essere messa di nuovo a frutto. Il grande latifondista rischiava ancora di meno: le sue proprietà erano normalmente distribuite in aree ben lontane le une dalle altre, spesso addirittura in province diverse. Difficilmente quindi la guerra, per quanto violenta, avrebbe potuto devastarle tutte; il mancato introito delle terre danneggiate avrebbe potuto essere più che compensato dai prodotti delle altre, a causa dell’inevitabile aumento dei prezzi che segue sempre un periodo di carestia.
Ma anche per questi ultimi le conseguenze di una guerra civile potevano essere disastrose: era sufficiente schierarsi con la parte sbagliata. Lo dimostravano gli oltre duecento senatori le cui teste erano cadute a causa delle liste di proscrizione stilate dal secondo triumvirato, meno di una generazione prima.
Agrippa e Pisone seppero approfittare dell’incertezza del momento, e del fatto che nessuno avesse davvero interesse a tornare al periodo delle guerre civili, per far approvare al Senato una serie di riforme.
Alcune di queste riforme erano già state progettate, e parzialmente attuate, da Ottaviano durante gli anni del suo Principato; in particolare la riforma monetaria, la ripresa della regolare elezione dei censori, più volte sospesa durante gli anni turbolenti delle guerre civili, e la riorganizzazione dell’esercito che ufficializzava e uniformava le modifiche che la sua struttura aveva accumulato sin dai tempi di Caio Mario.
Altre misure andavano invece in direzione opposta alla centralizzazione avviata da Ottaviano. Sicuramente non fu facile convincere il Senato a promulgare, nell’anno 733 AUC, il senatoconsulto che apriva a tutti i cittadini romani, provinciali compresi, l’accesso alle magistrature, e di conseguenza al ceto senatorio. Non sappiamo quali e quante pressioni dovettero esercitare Agrippa e Pisone per ottenere, da parte dei senatori, questa rinuncia a uno dei loro più importanti privilegi; uno degli incentivi fu sicuramente la contemporanea abrogazione della Lex Claudia de Senatoribus, che da quasi duecento anni proibiva ai membri del Senato e ai loro figli di investire nel commercio.
Anche se quest’ultima poteva sembrare una grossa concessione, era in realtà un’arma a doppio taglio: permettendo ai senatori di investire in altro modo i loro capitali, favoriva lo spostamento della ricchezza dai latifondi al commercio. L’obiettivo non dichiarato era di eliminare, con l’andar del tempo, la distinzione di classe tra un ceto senatoriale di proprietari terrieri e l’ordo equestris che di fatto riuniva i grandi mercanti; la storia ci dice che l’espediente funzionò.
Nei decenni successivi Roma prosperò in maniera incredibile: il sogno di Ottaviano di trasformare una città di mattoni in una di marmo si trasformò in realtà, alimentato da ricchi mercanti che donavano alla città opere sempre più spettacolari per sostenere le loro candidature alle magistrature più prestigiose. La città prosperava soprattutto perché i tributi provenienti dalle province non erano più assorbiti da guerre senza fine: i confini erano stabili e, a parte il completamento delle guerre in Hispania sotto la guida dello stesso Agrippa e la conquista della nuova provincia di Britannia nel corso della generazione successiva, Roma era davanti alla prospettiva di una pace duratura, per la prima volta nella sua lunga storia.
Fu in questi decenni di pace e prosperità che, provenendo dalle province orientali, cominciarono a prendere piede a Roma nuove idee.

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