De Architectura – La magistra
Arelate, Prid. Non. Mai. 872 AUC
– Ho ripensato alla discussione che abbiamo avuto qualche tempo fa, – esordì Tito Canio Rufo – e ho riletto la mia copia dei libri di Vitruvio Pollione sull’architettura e sul mestiere dell’architetto.
Era prima mattina e lui ed Egidio si erano appena incontrati nel foro, davanti alla basilica, e il flamen sembrava intenzionato a riprendere il discorso nonostante l’evidente scarso interesse dell’altro: – E vi hai trovato qualche illuminazione?
– Beh, c’è un passo, proprio nel libro primo, in cui parla delle virtù che dovrebbe avere un architetto: secondo lui dovrebbe essere un letterato, dovrebbe saper disegnare, conoscere di geometria, storia, filosofia, musica, medicina, astrologia e di giurisprudenza.
– E nient’altro? – Chiese ironico Egidio.
– È l’opinione di Vitruvio, non la mia. – Rispose Canio Rufo, sulla difensiva: – D’altra parte indica una serie di ottimi motivi per cui queste conoscenze sarebbero utili, o addirittura indispensabili, per un buon architetto.
– E quanti anni dovrebbe studiare un uomo per imparare tutte quelle cose? Con simili requisiti un architetto non potrebbe cominciare a lavorare prima dei cinquant’anni!
– È proprio questo il problema! Lo stesso Vitruvio riconosce che la maggior parte degli architetti non possiede queste competenze in grado sufficiente, e ha scritto il suo trattato proprio per fornire un minimo di preparazione a quelli che vogliono intraprenderne l’arte.
– E quindi torniamo alla tua teoria secondo cui gli architetti non sono sufficientemente competenti.
– In parte sì, – confermò Canio Rufo – ma ritengo che non sia un problema solo degli architetti: un medico non dovrebbe forse avere anche cognizioni di physiologia e di kemèia? O un astrologo di geometria? I pitagorici ci insegnano che Όλα είναι αριθμός4, che il numero è alla base di tutte le cose, ma poi nella pratica sembra che ignoriamo questo principio e lasciamo la geometria e l’aritmetica ai filosofi.
– E non sono loro che dovrebbero occuparsene?
– Credo che l’aritmetica sia una cosa troppo seria per lasciarla in mano ai filosofi! Se davvero tutto è numero, allora chiunque dovrebbe saper usare i numeri, quale che sia il suo campo di attività.
Si fermarono un attimo ad ammirare la facciata della curia, e poi salirono la scalinata che portava al portico sopraelevato. Era giorno di mercato e tutto lo spazio coperto era affollato di banchi e bancarelle che vendevano un po’ di tutto: tessuti e vestiti, prodotti agricoli, oggetti per la casa e per la cucina. C’era persino un banchetto che vendeva oggetti in cuoio lavorato e un fabbro che esponeva chiavi, serrature, cerniere e altra ferramenta. Canio Rufo ed Egidio procedettero in mezzo alla calca di acquirenti e venditori, continuando a chiacchierare.
– Ma credi veramente che un’istruzione del genere possa avere un’utilità pratica? Non sarebbe meglio che ciascuno si specializzasse nella propria disciplina, cercando di svilupparla al meglio delle sue possibilità? Credi davvero che quel fabbro farebbe un lavoro migliore se avesse studiato l’aritmetica o la kemèia?
– Certo, chi compie un lavoro pratico dovrebbe essere in grado di farlo al meglio; – gli concesse Canio Rufo – ma per poter migliorare la sua professione, uno dovrebbe avere cognizioni più vaste: se non conosci la geometria o l’astrologia, come puoi sapere se non ti potrebbero aiutare a migliorare la tua tecnica come scultore o viticoltore, o anche come fabbro?
– C’è chi sosterrebbe che i metodi tradizionali che andavano bene per i nostri padri possono andar bene anche per noi. – Lo rimbeccò Egidio: – Non sempre nuovo è sinonimo di migliore.
– Sì, Egidio, so che c’è chi lo sostiene. Ma è un ragionamento specioso: se i nostri padri e i loro padri avessero tutti seguito la stessa logica, vivremmo ancora in capanne con il tetto di paglia e andremmo in giro vestiti di pelli non conciate. Chi pensa che dovremmo restare ciecamente legati alla tradizione sostiene implicitamente che i nostri metodi sono già perfetti, e che quindi non c’è spazio per un ulteriore miglioramento.
– E tu non lo credi, mi sembra di capire.
– No, non lo credo affatto. E non lo credevano neanche i nostri antenati, altrimenti non avrebbero inventato tutte quelle cose che adesso noi consideriamo tradizionali. Pensa ad esempio agli acquedotti.
– Cosa c’è di originale negli acquedotti? Sono secoli che Roma costruisce acquedotti per portare acqua alle sue città.
– È vero, sono secoli. Ma c’è stato un passato in cui non era così; ci dev’essere stato un primo acquedotto, e il romano che per primo ha avuto l’idea di rifornire d’acqua la città di Roma in quel modo non stava seguendo una tradizione, la stava creando! E tu stesso, con i tuoi mulini, hai creato qualcosa di nuovo, qualcosa che prima non esisteva. Puoi negare che sia stato un miglioramento?
– Naturalmente no, – rise Egidio, pensando a quanto i mulini avevano innalzato la sua posizione sociale – almeno per me è stato sicuramente un grande miglioramento! Ma mi concederai che questo non vuol dire che tutte le innovazioni siano necessariamente positive.
– Te lo concedo di certo, caro Egidio, ma per distinguere tra una novità buona e una cattiva, bisogna prima conoscerle. Poi spetta agli uomini, e agli dei, giudicare quali innovazioni meritino di essere conservate e quali invece è meglio abbandonare. D’altra parte, – aggiunse ancora – questo è un periodo di grandi scoperte; hai saputo della spedizione che dovrà esplorare Oceano?
– Sì, ne ho sentito parlare, ma non conosco i dettagli.
– Neanch’io ne so molto, ma pare che stiano allestendo due grandi navi che dovranno partire dalla Lusitania, una verso settentrione e una verso meridione, per visitare tutte le terre bagnate da Oceano. Se avranno fortuna, si dovrebbero incontrare di nuovo in India, dopo che la prima avrà aggirato tutta la Germania e la Seria, mentre la seconda avrà esplorato i territori sconosciuti a sud di Egitto, Africa e Mauretania.
– È un impresa estremamente ambiziosa!
– Sì, lo è. Qualcuno dice addirittura che è una sfida agli dei, ma altri lo dicevano dei primi che volevano attraversare le Columnae Herculis…
– E quindi vorresti aprire una scuola di geometria e aritmetica qui ad Arelate? – Chiese Egidio ritornando al discorso iniziale.
– Non proprio. Mi piacerebbe che ci fosse una scuola che insegnasse ai giovani tutte quelle discipline che meritano di essere studiate: aritmetica e geometria, certo, ma anche retorica, greco, astrologia… Un po’ di tutto, insomma.
– Un po’ come il Lyceum di Atene, quindi?
– Qualcosa del genere, ma con una differenza importante: il Lyceum era la scuola di Aristotele, era una scuola di filosofia e si basava, almeno all’inizio, sui suoi insegnamenti. Io vorrei una scuola che non si basi sul lavoro e sul pensiero di un singolo filosofo, per quanto dotto e sapiente possa essere, ma che raccolga insegnanti di tutte le discipline. Una specie di scuola universale, per così dire.
– E chi la dovrebbe gestire? O finanziare? – Chiese ancora Egidio.
– Non lo so, – ammise Canio Rufo – o almeno non lo so ancora. Però è un progetto che mi sta molto a cuore.
– Lo vedo, flamen. Parliamone ancora, se trovi una risposta a queste domande.
– Bene, Egidio, ti assicuro che cercherò di trovarle. Vale.
Annia Vera era furibonda per il modo in cui era stata trattata dagli altri Figli della Gallia: – Su questo argomento sei in minoranza. – Le avevano detto: – Come se mi importasse qualcosa di essere con la maggioranza o con la minoranza! Quello che voglio è essere dalla parte giusta, non importa se per farlo devo essere da sola.
Vera stava conducendo un carretto tirato da un mulo, lungo la strada che portava ad Arelate provenendo da nord, seguendo a una certa distanza l’argine destro del Rhodanus. Stava tornando da Ugernum, all’incrocio con la Via Domitia, la grande strata romana distante poco più di dieci miglia da Arelate. Era andata fin là per consegnare a un sarto, per conto di suo padre, un carico di rotoli di tessuto di lino, cotone e lana.
Durante il viaggio di ritorno aveva già caricato un po’ di provviste: un pollo, olio, vino, formaggi e verdure che qui in campagna costavano meno che in città; ma soprattutto avrebbe approfittato del viaggio di ritorno per fermarsi qualche ora alla villa dei Biraxi dove stava portando avanti il suo personale progetto.
La villa e le terre circostanti erano in realtà di proprietà di uno dei decuriones di Arelate, che si faceva vedere a malapena un paio di volte l’anno per riscuotere gli utili. Nantonos Biraxi, il vilicus, era un peregrinus ma non era uno schiavo: lui e la sua famiglia occupavano l’ala ovest della villa e gestivano il fondo come mezzadri.
Nella stanza insieme a lei c’erano una dozzina di persone: in maggior parte bambini e giovani, figli dei vilici che curavano le terre di questa e di un paio di villae confinanti, ma anche un paio di adulti.
– Bene, Doiros, sei stato molto bravo. – Disse, restituendo a un bambino di otto o nove anni i pugillaria il cui contenuto aveva appena corretto: – Hai fatto solo un errore: “equus” si scrive con due u, non con una. Per il resto è perfetto, bravo!
Il bambino si allontanò, raggiante d’orgoglio, mentre Vera si rivolgeva a uno degli altri allievi. Questi era un giovane di circa dodici anni che stava faticando su un problema di aritmetica mentre Adiega, la sorella più vecchia di lui di un paio di anni, lo stava aiutando: – Vedi, Vectitos, non puoi moltiplicare direttamente numeri così grandi. Per trovare quanto fa trentatré volte sessanta, – indicò la tavoletta cerata su cui erano scritti i numeri XXXIII e LX – devi prima suddividerli nelle loro parti: calcola quanto fa trenta volte cinquanta, trenta volte dieci, tre volte cinquanta e tre volte dieci, e poi somma tra di loro i quattro risultati.
– Ah, forse adesso ho capito, – la ringraziò Vectitos – non sapevo proprio come andare avanti.
– Vedete ragazzi, – spiegò Vera – a volte quando incontriamo un problema difficile, il modo più facile per risolverlo è di suddividerlo in problemi più semplici. Tu, – chiese a uno dei bambini più piccoli – quanto fa tre volte cinquanta?
– Centocinquanta, magistra. – Rispose il bimbo dopo solo un attimo di esitazione.
– Visto? – Continuò rivolgendosi di nuovo a Vectitos: – Se lo dividi in problemi più semplici anche Iccauos riesce a trovare la risposta.
Annia Vera continuò così fino all’ora nona, correggendo i compiti dei suoi allievi e facendo lezione, con solo una breve interruzione poco dopo mezzogiorno per mangiare un po’ di pane e olive offerte dal vilicus. Poi, congedata la sua rustica scolaresca, riprese la strada per tornare ad Arelate.
– Sarò anche in minoranza come dite voi, – pensava mentre si avvicinava alla città – ma almeno faccio qualcosa, invece di passare tutto il tempo a parlare. Se vi fa tanto schifo l’idea di collaborare con i bifolchi perché sono più ignoranti di voi, forse la soluzione è quella di insegnar loro a leggere, scrivere e far di conto. Non sarà facile, ci vorrà sicuramente del tempo, ma chi ha mai detto che le cose debbano per forza essere facili?
4 Tutto è numero.