Capo del porto, a.d. VIII Id. Oct. 874 AUC
Caledonio ha finalmente cominciato a lavorare alla struttura dello scafo. Dopo aver smontato gli hypozomata sembra che gli sia stato tolto un peso dallo stomaco, è evidente che l’operazione lo preoccupava di più di quanto lui stesso non fosse disposto ad ammettere. Ora che ha visto che la nave regge bene anche senza il loro supporto, il magister fabrum è tornato quello di sempre: concentrato sul suo lavoro e indifferente a tutti e a tutto quello che non sia un martello o una sega.
Le spedizioni inviate ieri a esplorare il territorio hanno trovato l’acqua, e questa è un’ottima notizia, e una buona zona di caccia che ci permetterà nei prossimi giorni di rifornirci di carne affumicata, mentre aspettiamo che la nave torni operativa.
Hanno anche trovato un piccolo villaggio, a otto miglia dal nostro campo, popolato da gente che sembra dello stesso popolo dei cacciatori incontrati da Aktis il mese scorso nell’entroterra dietro l’Isola dei Serpenti. Credo che dovremmo andare a incontrarli, per vedere come vivono, quanti sono e se possono costituire un pericolo per noi.
Dopotutto può darsi che dal loro punto di vista noi siamo degli intrusi sulle loro terre e, con la Inceptio impossibilitata a navigare per chissà ancora quanto tempo, potrebbe essere più prudente mostrarci amichevoli con loro.
Caledonio e i suoi quattro carpentieri lavorarono sei giorni consecutivi, dalla mattina alla sera, per smantellare una parte della fiancata della nave fino ad arrivare alla parte danneggiata nella collisione.
Per farlo dovettero prima smontare tutte le sovrastrutture nella parte interessata, dalle murate ai banchi di voga e persino una parte del ponte e alcuni degli elementi della costolatura di rinforzo dello scafo; la maggior parte dei pezzi erano fissati con dei chiodi ribattuti a una o due punte, e per rimuoverli senza danneggiarli fu necessario un lungo lavoro di martello, scalpello e tenaglie.
Erano appunto impegnati a cercare di raddrizzare i chiodi che fissavano una delle costole di rinforzo, operazione delicata e faticosa in quanto dovevano evitare di danneggiare sia la costola che i chiodi, quando sul cantiere arrivò Gibil.
– Vale, Caledonio, il trierarca mi ha mandato per vedere se avevi bisogno di qualcosa. Sai che è molto in ansia per quanto riguarda i tempi per la riparazione della nave…
– Certo Gibil, prendi quelle tenaglie e aiutami a togliere tutti i chiodi dalle tavole su cui c’è questo segno. – Rispose il magister fabrum senza neanche voltarsi.
– Per Æsculapius, io sono un medico non un faber!
Caledonio si girò lentamente verso Gibil, lo squadrò da capo a piedi e gli mise in mano le tenaglie: – Ecco, adesso sei un faber. Per favore, vuoi aiutarmi a togliere i chiodi da quelle tavole?
Forse chiamarlo villaggio era persino esagerato: otto grandi capanne di forma approssimativamente circolare, con pareti di fango e coperte da un tetto di paglia, occupavano uno spazio di circa dieci passi per dieci al margine di un boschetto. Al centro, circondato dal semicerchio di capanne, c’era un focolare delimitato da un anello di pietre su cui probabilmente venivano cucinati i pasti di tutta la tribù.
Dominico, Aktis, Azrur e una dozzina di milites armati stavano osservando il piccolo insediamento da un centinaio di passi di distanza: – Non sembra che possano rappresentare una minaccia, trierarca, penso che non ci siano più di trenta uomini abili alle armi in tutto il villaggio. – Commentò Aktis.
– Lo credo anch’io, – rispose Dominico – e dubito che si possa commerciare con loro anche ammesso che riusciamo a imparare la loro lingua. Non vedo cosa potrebbero avere da venderci: qui intorno non si vedono campi coltivati e non sembra che abbiano bestiame. Di che cosa vive questa gente?
– Di caccia, immagino. Almeno, quelli che abbiamo incontrato più a nord erano armati di lance e archi.
– Probabilmente hai ragione. Ormai che siamo arrivati fin qua raggiungiamoli; Azrur potrà provare a parlare con loro.
Marciarono verso le capanne, da cui erano uscite un paio di dozzine di persone che li osservavano avvicinarsi. I volti dei nativi esprimevano preoccupazione ma non vennero fatti gesti ostili da nessuna delle due parti e il gruppetto dei romani arrivò senza incidenti fino a pochi passi dall’ingresso del villaggio; qui si fermarono ad aspettare.
Vennero verso di loro due uomini, uno dei quali sembrava incredibilmente vecchio; si avvicinarono al gruppo e si fermarono disarmati di fronte a loro.
Il più anziano dei due si rivolse a Dominico pronunciando un paio di brevi frasi in una lingua totalmente incomprensibile; si fece avanti Azrur che provò a scambiare qualche parola con i nativi e poi, dopo svariati tentativi, si girò verso Dominico sconsolato: – È inutile, trierarca, non solo non riesco a capire nulla di quello che dicono, ma non sono neanche capace di ripetere le loro parole. Come posso sperare di imparare una lingua che non posso pronunciare?
– Vuoi dire che quei buffi suoni che fanno mentre parlano fanno parte del loro linguaggio? – Chiese Dominico incredulo.
– Penso di sì. Ma come si fa a parlare una lingua in cui le parole contengono degli schiocchi di labbra, o dei gargarismi come quelli che fanno questi barbari qua?
– Ma sei sicuro che si tratti di una lingua – chiese Aktis intervenendo per la prima volta nella discussione – e non siano semplicemente dei suoni inarticolati come quelli degli animali?
– No, centurione, sono abbastanza certo che si tratti di una lingua, ma è così differente da tutte quelle che conosco che non so davvero se potremo riuscire a capirci nel poco tempo che ci fermeremo qui.
– Beh cerca di fare del tuo meglio. – Tagliò corto Dominico: – Se riuscirete a capirvi tanto meglio, altrimenti avrai solo perso qualche giorno in un tentativo inutile.
Una volta liberata la parte di scafo su cui doveva lavorare, Caledonio dovette smontare una ad una tutte le tavole della fiancata danneggiata partendo dall’alto, sfilando con cautela a colpi di mazza e punteruolo i cavicchi che bloccavano i giunti, che a loro volta legavano tra loro le assi. Le tavole erano lunghe quattro cubiti e c’erano da smontare quattro giunti per ogni cubito. Per arrivare alle tre tavole danneggiate, ne dovette smontare quasi trenta, che adesso giacevano ordinatamente sul fondo della stiva; da ingegnere metodico qual era, prima di smontarle le aveva numerate tutte imprimendo su ciascuna dei segni con un ferro incandescente. Alla fine del lavoro di smontaggio il cesto che conteneva i cavicchi recuperati era colmo fino all’orlo.
Ora finalmente era arrivato alla sezione di scafo danneggiato. Non aveva avuto il coraggio di sperarlo veramente, ma per fortuna nessuna delle tavole era seriamente lesionata; a parte qualche scheggiatura ai bordi, le assi erano intatte: l’impatto con gli scogli si era limitato a tranciare o deformare i perni di bloccaggio e i giunti.
– Questa mi sembra una buona notizia. – Commentò Dominico quando il magister fabrum gli riferì la cosa.
– Direi ottima, trierarca. Se una delle tavole si fosse spezzata nell’urto avrei dovuto sostituirla, e qui in fondo al mondo non avremmo avuto a disposizione il materiale adatto.
– Avremmo sempre potuto ricavare le tavole dal legno di uno di questi alberi. – Commentò Dominico indicando il bosco alle loro spalle: – Certo ci sarebbe voluto più tempo, ma…
– No, non sarebbe stata una buona idea. Riparare lo scafo con delle tavole di legno non stagionato sarebbe stato molto pericoloso: il legno verde a contatto con l’acqua si gonfia e si crepa. Nel giro di pochi mesi ci saremmo probabilmente trovati di nuovo con una falla nella stiva. Avrei dovuto ricavare le nuove tavole dalle assi del ponte, ma sarebbe stato un lavoro lungo e faticoso.
– Capisco. E per quanto riguarda i giunti spezzati non avremo lo stesso problema?
– Non credo. Una volta che i giunti nuovi saranno in posizione dentro le loro sedi non avranno più lo spazio necessario per gonfiarsi. Anzi, se si allargheranno un po’ avranno meno gioco e quindi miglioreranno la tenuta. Tra gli alberi che crescono in questa zona ne ho trovato uno che ha un legno duro e compatto, quasi quanto il legno di cerro utilizzato per costruire i giunti originali: sono certo che si presterà benissimo per il lavoro.
Azrur prese molto sul serio il compito che gli aveva affidato il trierarca. Per tutta la durata delle riparazioni della Inceptio ogni giorno, poco dopo l’alba, si recava al villaggio, scortato da sei milites, e passava tutta la giornata in compagnia del vecchio, a cercare di costruire una base linguistica comune con cui comunicare.
Ogni giorno i sette romani si portavano dalla nave un po’ di provviste per il pasto di mezzogiorno: pesce salato, carne affumicata, un po’ di posca allungata con acqua, qualche focaccia di farina di habe (ormai stava quasi per finire e chissà per quanto tempo sarebbero rimasti senza pane!). Naturalmente portavano del cibo anche per il loro ospite, come ricompensa per le lezioni di lingua che stava dando ad Azrur.
Gradualmente la costanza dell’interprete mazace e del suo maestro indigeno furono premiate: una parola per volta, dopo dieci o cento ripetizioni, Azrur cominciò a imparare a pronunciare gli strani suoni della lingua del popolo, come gli indigeni definivano se stessi e il significato delle parole di uso più comune.
Fu un processo molto lento, ci vollero diversi giorni solo per arrivare al punto di poter mettere insieme tre o quattro parole per costruire una frase, ma poi le cose cominciarono ad andare più spedite.
Azrur era così preso dallo studio della lingua del popolo che non si rese minimamente conto del fatto che un paio dei milites della sua scorta stavano a loro volta cominciando a imparare i primi rudimenti della lingua locale, aiutati da insegnanti ben diverse: due ragazze del popolo in età da marito avevano trovato un interesse particolare nell’insegnare a questi giovani milites romani.
Anche se l’interprete non si era accorto di niente, tre quarti dell’equipaggio sghignazzava alle loro spalle e lanciava battute salaci, soprattutto a Rodulf il quale, a differenza del suo compagno, sembrava aver perso completamente la testa.
Quindici giorni dopo la nave era di nuovo completamente in ordine: lo scafo era stato riassemblato con cura, gli hypozomata rimessi correttamente in tensione e le sovrastrutture rimontate e solidamente inchiodate al loro posto.
Caledonio era particolarmente soddisfatto dei risultati ottenuti con la carbonaia, soprattutto a causa del fatto che era la prima volta che cercava di costruirne una: il forno aveva prodotto più di dieci congi di ottima pece oltre a circa mille librae di carbone; quest’ultimo venne accumulato in ceste per essere successivamente caricato a bordo della nave, del buon carbone è sempre utile in cambusa.
La pece venne invece utilizzata quasi interamente per rinnovare l’impermeabilizzazione dell’esterno dello scafo: una dozzina di milites furono messi al lavoro con spatole e pennelli a stenderla su tutta la superficie esposta all’acqua dopo aver accuratamente riempito crepe e fessure con stoppa di lino, prestando particolare attenzione alla sezione che Caledonio aveva smontato e riassemblato.
Il giorno successivo, approfittando della luna nuova e del conseguente massimo di marea, sarebbero cominciati i preparativi per riportare la Inceptio in mare.
Poco dopo l’inizio della quarta vigilia, molto prima del sorgere del sole, un centinaio di milites armati di bastoni e di pale scesero sulla diga e cominciarono a smantellarla, mentre i loro compagni rimuovevano con le ceste le pietre e la terra.
All’alba, quando il livello della marea raggiunse il minimo, l’imboccatura del canale era completamente aperta; la nave era ancora sostenuta dai pali e dai cavi di ormeggio, mentre l’acqua ricominciava a salire.
Finalmente, tra la quarta e la quinta ora, la nave cominciò a galleggiare e tirare sugli ormeggi: Aktis mandò una squadra di milites con mazze e corde giù per la scogliera, a liberare e togliere di mezzo i pali di supporto ormai inutili; intanto Caledonio nella stiva della nave controllava che non ci fossero significative infiltrazioni d’acqua.
A mezzogiorno, con il flusso della marea giunto quasi al suo massimo, salirono a bordo Dominico, Sobadako e sessantaquattro remiges, ciascuno con il suo remo. Gli ormeggi vennero sciolti e la Inceptio venne in parte trainata con le funi, in parte spinta con le pertiche, fino ad uscire in mare. I remiges si misero al lavoro e la nave venne di nuovo portata al largo e ancorata a trecento piedi dalla costa.
La partenza della Inceptio si avvicinava e Rodulf si faceva sempre più depresso. La mattina dopo la riapertura del canale prese il coraggio a due mani e andò a cercare Tito Fusco, il comandante della sua centuria: – Centurione, possiamo scambiare due parole in privato per favore? –
Tito era incuriosito dall’atteggiamento del miles, chiaramente nervoso e imbarazzato ma con una determinazione nello sguardo che non gli aveva mai visto prima: – Certamente Rodulf, – e, indicando gli ultimi alberelli superstiti a fianco dell’ingresso del castrum – andiamo laggiù all’ombra.
– Centurione, ormai la Inceptio è pronta a ripartire e io non posso rimandare la mia decisione. – Fece un gesto per fermare l’obiezione dell’altro: – Non posso partire con voi, mi trovo troppo bene qui con il popolo e con quella che è ormai la mia donna. Voi dovete partire, ma io non posso! Scusami, ma non vengo con voi, io rimango qui. –
– Sei impazzito? Vuoi davvero restare con questi barbari selvaggi? Andare in giro seminudo per queste terre spoglie a caccia di quel poco che hanno da offrire? Tu, un romano, che potrebbe vivere in una colonia con tutte le comodità della civiltà? – Tito Fusco era sinceramente incredulo: – E poi lo sai che non mi puoi chiedere una cosa simile: si tratta di diserzione! Se solo io riferissi al trierarca quello che mi hai appena detto, lui sarebbe obbligato a punirti in maniera esemplare.
– Dimentichi che io vengo dalla Germania, dalla tribù dei saxones, centurione. Per quasi tutta la mia vita ho vissuto da cacciatore e pastore nelle foreste, non mi spaventa quella che tu chiami vita selvaggia! Con un po’ di fortuna potrò insegnare loro i rudimenti dell’agricoltura e magari addomesticare qualcuna delle gazzelle che si trovano qui intorno. Centurione, – aggiunse con tono serio – io la mia decisione l’ho già presa. Se credi che questo sia il tuo dovere, denunciami al trierarca come disertore o legami nella stiva della nave perché non possa scappare, altrimenti lasciami andare.
Tito rimase impressionato dalla risolutezza di quello che aveva sempre considerato un giovane e timido miles: – Ascoltami bene, Rodulf, perché non te lo ripeterò una seconda volta. Io non ho sentito nulla di quello che mi hai appena detto, e probabilmente è meglio così perché se per caso avessi sentito dire che un mio sottoposto intende disertare sarei stato costretto a denunciarlo al trierarca. Non ho idea di cosa volessi parlarmi e non mi interessa, ma sono io adesso che voglio dirti una cosa: domani Azrur andrà per l’ultima volta al villaggio a salutare il suo amico, e tu e i tuoi compagni lo accompagnerete come sempre; sai come possono essere pericolose queste terre selvagge, a volte può bastare che uno si allontani un po’ troppo dagli altri e magari gli capita una disgrazia, assalito da un leone o qualcosa del genere… Non vorrei proprio che i tuoi compagni dovessero tornare indietro con la notizia della tua morte e che noi fossimo costretti a partire senza di te.
E con questo discorso ambiguo, il centurione si girò e tornò al castrum lasciando Rodulf a domandarsi se il suo superiore aveva davvero detto quello che lui pensava di aver sentito.
Fu necessario il lavoro di tutto l’equipaggio nei quattro giorni successivi per imbarcare di nuovo sulla Inceptio tutto il carico e immagazzinarlo nella stiva, rimontare gli alberi e le vele, riportare a bordo tutte le attrezzature e gli effetti personali dell’equipaggio che erano stati scaricati per alleggerirla.
Finalmente, all’alba del quarto giorno delle Idus di November, il castrum venne smantellato e gli ultimi milites si imbarcarono insieme agli ultimi barili d’acqua.
La Inceptio era finalmente di nuovo operativa e pronta a riprendere il viaggio verso sud.
Capo del porto, a.d. IIII Id. Nov. 874 AUC
La Inceptio è stata riparata e il carico è di nuovo a bordo: siamo pronti per la partenza.
Purtroppo devo registrare un incidente di cui è stato vittima il miles Rodulf della seconda centuria mentre era in servizio con una pattuglia di scorta al nostro interprete Azrur. D>urante la sosta al villaggio degli indigeni, Rodulf è stato attaccato da un leone che lo ha ucciso e trascinato via. I suoi compagni hanno riferito l’incidente a cui hanno assistito senza poter intervenire perché in quel momento il miles Rodulf si trovava a una certa distanza da loro e l’azione si è svolta troppo rapidamente perché loro facessero in tempo ad accorrere in suo aiuto.
Darò disposizioni perché la sua paga arretrata sia inoltrata alla sua famiglia.