Consideriamo (di nuovo) l’idea aristotelica di categorie. Diciamo che c’è un qualche oggetto con le proprietà A, B, C, D ed E, o almeno sembra che sia E.
Fred: “Vuoi dire che quella cosa lì è blu, tonda, lanuginosa e —”
Io: “Nella logica aristotelica, si presume che non abbia importanza sapere quali siano le proprietà, o come le chiamo. Questo è il motivo per cui sto usando delle lettere.”
Come passo successivo, invento la categoria aristotelica “zawa”, che descrive quegli oggetti, tutti quegli oggetti, e solo quegli oggetti, che hanno le proprietà A, C e D.
Io: “L’oggetto 1 è zawa, B ed E.”
Fred: “Ed è anche blu — voglio dire A — giusto?”
Io: “Questo è implicito quando dico che è zawa.”
Fred: “Preferirei lo stesso che tu lo dicessi esplicitamente.”
Io: “OK. L’oggetto 1 è A, B, zawa ed E.”
Poi aggiungo un’altra parola, “yokie”, che descrive tutti e solo gli oggetti che sono B ed E; e la parola “xippo”, che descrive tutti e soli gli oggetti che sono E ma non D.
Io: “L’oggetto 1 è zawa e yokie, ma non è xippo.”
Fred: “Aspetta, è luminoso? Voglio dire, è E?”
Io: “Sì. È l’unica possibilità considerando le le informazioni date.”
Fred: “Preferirei che lo dicessi esplicitamente.”
Io: “Va bene: l’oggetto 1 è A, zawa, B, yokie, C, D, E e non è xippo.”
Fred: “Incredibile! Puoi capire tutto questo solo guardandolo?”
Impressionante, vero? Inventiamo altre nuove parole: “Bolo” è A, C e yokie; “mun” è A, C e xippo; e “merlacdonian” è bolo e mun.
Inutilmente confuso? Lo credo anch’io. Sostituiamo le etichette con le definizioni:
“Zawa, B ed E” diventa [A, C, D], B, E
“Bolo e A” diventa [A, C, [B, E]], A
“Merlacdonian” diventa [A, C, [B, E]], [A, C, [E, ~D]]
E la cosa da ricordare sull’idea delle categorie aristoteliche è che [A, C, D] è l’intera informazione di “zawa”. Non è solo che posso cambiare l’etichetta, ma che posso andare avanti benissimo senza nessuna etichetta — le regole per le classi aristoteliche funzionano unicamente su strutture come [A, C, D]. Chiamare una di queste strutture “zawa”, o attaccarci una qualsiasi altra etichetta, è solo per comodità (o scomodità) umana, e non fa la minima differenza per le regole aristoteliche.
Diciamo che “uomo” è definito come un bipede implume mortale. Quindi il sillogismo classico avrebbe la forma:
Tutti [mortale, ~penne, bipede] sono mortali.
Socrate è un [mortale, ~penne, bipede].
Quindi, Socrate è mortale.
L’impresa di ragionamento ora sembra molto meno impressionante, vero?
Qui l’illusione di inferenza viene dalle etichette, che nascondono le premesse, e pretendono che la conclusione sia originale. Sostituire le etichette con le definizioni svela l’illusione, rendendo visibile l’inutilità empirica della tautologia. Non puoi mai sapere che Socrate è un [mortale, ~penne, bipede] finché non hai osservato che è mortale.
C’è un’idea, che potreste aver notato che io odio, secondo cui “uno può definire una parola come preferisce”. Questa idea viene dalla nozione di categoria aristotelica; se segui esattamente e senza errori le regole aristoteliche — cosa che gli umani non fanno mai; Aristotele sapeva perfettamente che Socrate era un uomo, anche se questo non era giustificabile secondo le sue regole — ma, se qualche immaginario essere non umano dovesse seguire alla lettera le regole, non arriverebbe mai a una contraddizione. In effetti non arriverebbe a molto di qualsiasi cosa: non potrebbe sostenere che Socrate è un [mortale, ~penne, bipede] finché non avesse osservato che è mortale.
Ma il problema non è tanto che le etichette nel sistema aristotelico sono arbitrarie, quanto il fatto che il sistema aristotelico funziona benissimo anche senza nessuna etichetta — sputa fuori lo stesso flusso di tautologie, solo che sembrano un sacco meno interessanti. Le etichette sono lì solo per creare l’illusione di un’inferenza.
Quindi, se proprio dobbiamo avere un proverbio aristotelico, non dovrebbe essere “Posso definire una parola come preferisco” e nemmeno “Definire una parola non ha conseguenze” ma piuttosto “Le definizioni non richiedono parole”.