Capitolo 1


L’eques – I mulini – Il tempio

Arelate, a.d. XIII Kal. Apr. 872 AUC

La famiglia dell’eques Egidio Iulio Enobarbo era qui ad Arelate da sempre. Da sempre.
I suoi lontani antenati pescavano nella foce del Rhodanus molto tempo prima che un romano mettesse piede in Gallia, forse ancora prima della nascita di Roma.
Erano qui, e coltivavano i campi intorno al fiume, quando i Greci fondarono il villaggio di Theline e ne fecero il porto fluviale che controllava i commerci tra Massilia e la valle del Rhodanus.
Erano ancora qui quando i Romani sottomisero la Narbonense e la trasformarono in provincia, e Theline la “ricca” divenne Arelate, il “paese vicino alla palude”.
Erano una delle famiglie più in vista di Arelate quando la città, a differenza della vicina Massilia, ebbe la fortuna di schierarsi dalla parte giusta nella guerra civile; per questo suo merito Caio Giulio Cesare elevò la città al rango di colonia di diritto romano e ricompensò i suoi abitanti con la cittadinanza romana. Il trisavolo di Egidio diventò così Caio Iulio Enobarbo, civis romanus.
Egidio Iulio Enobarbo era un uomo massiccio, alto più di sei piedi e con una marcata tendenza alla pinguedine. Il suo grande viso rotondo era incorniciato da una gran barba rossa che rendeva onore al suo nome e da capelli castani tagliati corti. E adesso che aveva raggiunto i trentotto anni, la sua era diventata anche la famiglia più ricca della città: scandalosamente ricca. Tutto merito del grande acquedotto. Anzi, a dire la verità, la maggior parte del merito era da attribuire al fallimento dell’acquedotto.
La città di Arelate riceveva l’acqua da una dozzina di sorgenti montane, raccolta e convogliata fino alla città mediante un acquedotto costruito dalle legioni già ai tempi di Cesare. Era un’opera ciclopica: lungo circa trentacinque miglia, correva lungo il crinale delle Piccole Alpi per poi scendere fino alla pianura e raggiungere l’abitato.
Ai tempi in cui il nonno di Egidio era bambino, l’acquedotto era stato ulteriormente esteso aggiungendo un secondo ramo lungo più di sette miglia, che prelevava l’acqua dalle sorgenti sull’altro lato della montagna e si congiungeva al precedente poco prima che questo cominciasse a scendere verso la pianura.
Per un bel po’ di tempo tutto era andato bene, ma poi erano cominciati i problemi. Una ventina di anni prima, gli abitanti di Arelate avevano cominciato a lamentarsi che l’acqua era cattiva e puzzava, e c’erano persino stati dei casi di avvelenamento. Le autorità avevano indagato, e avevano deciso che il nuovo ramo est raccoglieva acque insalubri, e quindi avrebbe dovuto essere scollegato dall’acquedotto e chiuso.
E fu a questo punto che Egidio decise di rischiare il tutto per tutto: buona parte delle terre della sua famiglia erano proprio al di sotto dell’altipiano roccioso su cui correva l’acquedotto. Egidio investì tutto quello che possedeva e che riuscì a farsi prestare in un progetto estremamente ambizioso.
Prima di tutto, ottenne dal proconsole allora in carica l’usufrutto del ramo di acquedotto da dismettere, allo scopo dichiarato di usarne l’acqua per irrigare le sue terre. Questo gli costò un bel po’ di bustarelle, oltre al vectigal annuale previsto per l’utilizzo di una risorsa pubblica, ma ne valeva la pena.
Nel frattempo, vendette buona parte delle terre di famiglia in altre zone e comprò tutte le terre ai piedi dell’altipiano su cui riuscì a mettere le mani: si trattava di circa mille iugera di terra buona, ma poco sfruttata e tenuta prevalentemente a pascolo a causa della scarsa irrigazione.
Una volta acquistata la terra e ottenuto l’uso esclusivo del ramo nuovo dell’acquedotto, Egidio lo fece prolungare fino al margine dell’altopiano, costruendo ex novo quasi un quarto di miglio di arcate e aprendo un canale lungo sessanta piedi nella viva roccia dell’orlo; in questo modo ebbe abbastanza acqua per irrigare, e i pascoli diventarono campi di grano.
Se si fosse fermato qui, sarebbe stata una speculazione redditizia, ma tutto sommato limitata; ma i suoi veri progetti andavano ben oltre. Per scendere dall’altopiano alla pianura sottostante l’acqua doveva fare un salto di centocinquanta piedi, su una parete rocciosa quasi verticale; il canale venne diviso in due rami paralleli e il dislivello spezzato in otto balzi più piccoli: a ciascun livello vennero costruiti due mulini ad acqua, ciascuno alimentato da uno dei due rami del canale.
C’erano voluti complessivamente cinque anni per finire i lavori, e altri tre per pagare i debiti contratti e rientrare dell’investimento iniziale, ma adesso Egidio era proprietario di mille iugera di campi coltivati a frumento, quattordici mulini che potevano macinare cinquemila modii di grano e produrre ottomila librae di farina ogni giorno, e di due frantoi che in autunno trasformavano in olio l’intera produzione di olive della regione, e per il resto dell’anno macinavano frammenti di terracotta e laterizi per produrre cocciopesto.
Come si è già detto, era diventato scandalosamente ricco.
Così quando tre anni prima Egidio Iulio Enobarbo si era offerto di ricostruire e ampliare a proprie spese il tempio dell’Alma Mater, gli aediles cittadini e i sacerdoti del collegium di Ceres e Proserpina non avevano avuto altra scelta che acconsentire all’eccentrica condizione che lui aveva posto.
E oggi, giorno dei Quinquatria, era il grande giorno dell’inaugurazione: i sacerdoti avevano effettuato le lustrationes di rito e i simulacri delle dee erano adesso ospitati nella loro nuova casa; Ceres nella cella maggiore, quella centrale, sua figlia Proserpina nella cella di sinistra e Minerva in quella di destra.
Per quanto questo accostamento potesse sembrare ai romani curioso, e forse anche al limite del blasfemo, per la maggioranza della popolazione di Arelate questo non era motivo di disagio: i galli, anche quelli più romanizzati, erano da sempre abituati alla tradizionale rappresentazione delle Matres, la triplice dea identificata dai Romani con Ceres. Il fatto di avere un tempio dedicato alla Madre nel quale erano alloggiate tre dee, non li preoccupava minimamente.
Egidio da parte sua riteneva di aver così adempiuto a un voto unendo sotto un solo tetto Ceres e Proserpina, protettrici dell’agricoltura e del frumento, e Minerva patrona delle arti e degli artigiani e a cui era sacro l’ulivo. Lo considerava un atto dovuto di ringraziamento per il successo del grande complesso dei mulini.
Oltre al tempio propriamente detto, con le celle delle tre dee, il grande recinto porticato racchiudeva anche altri edifici: il tesoro del tempio, i magazzini in cui venivano conservati gli arredi e i paramenti sacri e, infine, le scholae dei collegia con i loro archivi.
Il tempio di Minerva infatti fungeva anche da punto di riferimento per diversi collegia di arti e mestieri; e tra questi Egidio era patronus di quello dei pistores, mugnai e fornai, e di quello degli olearii, produttori d’olio d’oliva.
A dire il vero, era proprio questa funzione di aggregazione sociale che aveva fatto nascere la necessità di ampliare il vecchio tempio di Minerva, perché negli ultimi decenni la città aveva visto un notevole sviluppo, sia dal punto di vista delle attività produttive che da quello dei commerci. Arelate aveva ora una popolazione, in crescita costante, di circa diciottomila tra uomini e donne liberi, oltre a una quantità di bambini e più di ventimila schiavi; questo senza contare i vilici e i braccianti nelle campagne circostanti e gli schiavi agricoli.
In fin dei conti Egidio Iulio Enobarbo era un uomo arrivato: ricco, con un’ottima posizione sociale, rispettato e stimato da tutti i suoi concittadini. C’era un’unica macchia a rovinare la sua soddisfazione: Lucio.

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