Capitolo 3


Andarta

Arelate, Prid. Kal. Apr. 872 AUC

Annia Vera non era una donna felice. Non è che fosse scontenta di qualcosa in particolare, o che fosse preoccupata di qualcosa in questo preciso momento; la sua era una insoddisfazione cronica, che sconfinava nella rabbia.
Aveva diciotto anni ed era figlia di Quinto Annio Vero, un modesto sarto e commerciante di tessuti, proprietario di una piccola taberna nel quartiere del porto nuovo di Arelate. Vera viveva da sola con il padre: la madre era morta di malattia otto anni prima e poco tempo dopo Marco, il suo fratello maggiore, era stato arrestato per aver aiutato uno schiavo fuggiasco. Processato per plagium, non c’era stato niente da fare: per lui era stata la damnatio ad salinas, e da allora non se ne era saputo più niente.
La sua unica consolazione era il disprezzo: un disprezzo generico, quasi platonico, per tutto e per tutti.
Disprezzava la povertà di suo padre il quale, nonostante tutti gli sforzi e i sacrifici che aveva fatto, non era mai riuscito a sollevarsi da una misera mediocrità.
C’era una vena di disprezzo nel modo in cui considerava Lucio Iulio Enobarbo. Nonostante lui la amasse davvero, lei ne era certa, era figlio di un uomo troppo ricco e quindi era implicitamente partecipe dell’ingiustizia del mondo.
Un disprezzo che si trasformava in rabbia, contro il destino e la malattia che avevano ucciso sua madre.
E il suo disprezzo diventava odio quando pensava a Roma, la metropoli, il potere straniero che schiacciava la sua patria e che le aveva portato via il fratello.
Ed era proprio per questo suo odio nei confronti di Roma che Vera era arrivata ai Figli della Gallia: nonostante nella sua opinione fossero solo un gruppo di ragazzini viziati, erano le uniche persone che conosceva che condividessero i suoi sentimenti di ribellione. Naturalmente non poteva partecipare alle loro riunioni serali, l’ora e il luogo avrebbero reso assolutamente sconveniente la presenza di una giovane che non volesse essere considerata una lupa, ma non mancavano di certo occasioni per scambiare informazioni e opinioni con loro durante il giorno.
Suo padre oggi era andato al porto per esaminare un carico di tessuti appena arrivato, per vedere se c’era qualcosa di interessante da comprare, ed era quindi lei ad occuparsi della taberna. Stava appunto cercando di convincere una grassa matrona ad acquistare una pezza di un coloratissimo e costosissimo tessuto di lino egiziano, quando vide Tito entrare nella bottega; gli lanciò un’occhiataccia mentre finiva di servire la cliente.
– Cosa fai qui Dumnorix, sei impazzito? – Sibilò Vera appena la donna fu uscita con il suo nuovo acquisto: dodici cubiti di tessuto pagati la bellezza di quaranta sesterzi.
– Stai buona, Vera, – Tito non sembrava particolarmente preoccupato dall’accoglienza poco calorosa – sono solo passato per riferirti che Lucio vorrebbe incontrarti più tardi, mi ha detto di chiederti di raggiungerlo al foro, davanti all’ingresso della curia.
– Impossibile, mio padre sarà assente almeno tutta la mattina e devo assolutamente occuparmi della taberna. Digli che se posso sarò lì all’ora decima.
– Riferirò. Ma non c’è bisogno che mi chiami Dumnorix, puoi chiamarmi Tito come tutti, no?
– C’è una buona ragione se tra di noi usiamo dei soprannomi; se non li usiamo sempre, finiremo per dimenticarci di usarli proprio al momento sbagliato! Quindi, se non ti dispiace, tu sei Dumnorix. E cerca di non venire più qui inutilmente: meno ci facciamo vedere insieme in pubblico, meglio è.
– D’accordo, Andarta, – rispose Tito calcando il tono di voce sul suo nome di guerra – come vuoi tu. Ma toglimi una curiosità: questa regola dei nomi si applica a tutti noi, e in tutte le occasioni? Cioè spiegami, Lucio lo chiami davvero Cingeto anche nell’intimità? – E corse via dalla bottega ridendo, schivando per un soffio la pietra che Vera gli aveva tirato dietro.


– Vera, sono felice che tu sia riuscita a venire. – Lucio era ai piedi dell’ampia scalinata che portava all’ingresso della curia e Vera, mentre si stava avvicinando, l’aveva visto camminare nervosamente avanti e indietro.
– Ho fatto il possibile Lucio, Tito ti avrà detto che non potevo muovermi dalla taberna finché non tornava mio padre.
– Certo, non preoccuparti. – rispose Lucio accettando le implicite scuse di lei. Camminarono insieme attraverso il foro, verso l’uscita est. Dopo qualche passo Lucio riprese a parlare, in tono più esitante: – Volevo parlarti, ho avuto un’altra discussione con mio padre e…
– Avete litigato di nuovo? Su che cosa questa volta?
– La solita maledetta questione: lui vorrebbe che io fossi un romano, cosa che non sarò mai!
– A me sembra che tu sia già fin troppo romano anche adesso. – Commentò lei con tono tra lo sprezzante e il canzonatorio.
Erano usciti dal foro e passeggiavano lungo la via Decumana. – Lo so. – Riprese Lucio: – Il problema è che lui adesso insiste perché l’anno prossimo io mi arruoli nelle legioni di Roma.
– Tu nelle legioni? Gli avrai riso in faccia, spero. – Vera sembrava abbastanza divertita all’idea.
– E come faccio? – Sbottò lui: – Certo, posso mandarlo all’Orco e dirgli che non lo farò. E poi, cosa faccio dopo? Quello è capace di buttarmi fuori di casa, so che ne sarebbe capace, e io non ho un mestiere o un negotium come hai tu che mi dia da vivere.
– E quindi cosa vuoi fare? Venderti a Roma per un boccone di pane?
– No! Ma ci dev’essere un modo per fargli cambiare idea. Oppure devo trovare un modo per guadagnarmi da vivere senza dipendere da lui, ma finché non lo trovo…
– Non lo troverai mai se non lo cerchi! – Rispose lei con tono sprezzante: – Ma parliamo d’altro, all’incontro dell’altra sera avete discusso la mia proposta?
– Sì, Vera, ma abbiamo deciso che è troppo pericoloso e che non vale la pena di rischiare.
– Pericoloso! – Sibilò Vera senza neanche cercare di mascherare il suo risentimento: – Ma cosa credete, di poter fare guerra a Roma senza correre dei rischi?
– Certo che no. Ma siamo ancora troppo pochi! – Rispose Lucio stizzito: – Se ci esponiamo troppo presto il proconsole avrà gioco facile ad eliminarci tutti in un colpo solo, e allora sarà stato tutto inutile.
– Ma se non facciamo niente rimarremo sempre in pochi! Come potete pensare di estendere il nostro movimento se rimaniamo inattivi per paura di agire?
– Non si tratta di paura, ma di strategia: tu vorresti che rischiassimo tutto in un attentato al proconsole che non ha la minima possibilità di riuscire.
– Non lo so. Tu la chiami strategia, ma a me sembra solo inerzia.
– Non è così; noi pensiamo che sia meglio attendere il momento migliore, e intanto cercare di raccogliere nuovi associati, piuttosto che buttarci eroicamente allo sbaraglio contro un nemico troppo più forte di noi. Ti sembra un atteggiamento stupido?
– No, non è stupido. Forse un po’ troppo… prudente.
– Senti, tornando al discorso di prima, secondo te come dovrei comportarmi con mio padre?
– Te l’ho detto: fintanto che dipendi da lui non puoi sperare di costringerlo a cambiare idea, perché lui sa che tu non hai alternativa e ti potrà sempre ricattare. Cerca il modo di renderti indipendente, e solo dopo potrai affrontarlo; ma cercalo davvero, non aspettare che ti arrivi dal cielo!
– Hai ragione naturalmente, ci penserò. Seriamente.
Erano giunti di fianco al grande teatro e qui la via piegava a destra, seguendo in parte la curva del colonnato lungo il quale si trovavano gli ingressi alle tribune, e poi proseguiva fino alla porta orientale della città. Da lì in poi si trasformava nella grande strata romana che arrivava fino a Massilia.
Lucio cercò di guidare Vera sotto uno degli archi delle fauces, per sfruttare quel riparo per avere un po’ di intimità, ma lei non era dello stesso parere: – Dai, non fare lo stupido! Lo sai che devo tornare alla taberna, non posso lasciare mio padre da solo a occuparsi di tutto! – E si diresse a nord, lanciandogli appena l’idea di un bacio, verso il ponte che collegava la città al quartiere del porto nuovo.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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