A differenza dei due precedenti, questo romanzo parla in continuazione di navi e di attività marinara, è quindi necessario un discorso a parte per quanto riguarda la terminologia nautica. Purtroppo le fonti letterarie latine riportano pochissimo a questo proposito: non sappiamo quasi nulla sui termini latini relativi alle navi, alle parti della nave e alle manovre in mare, se non da accenni casuali in opere che parlano principalmente d’altro.
Per questo motivo parlando di marina ho fatto la seguente scelta: ho usato i termini greci per quelle definizioni specifiche che non hanno un equivalente moderno (ad esempio hypozoma o zygios) o la forma latina nei pochi casi in cui questa è conosciuta (ad esempio gubernator o remex). In tutti gli altri casi ho utilizzato i termini moderni, anche se anacronistici, parlando quindi tranquillamente di albero di maestra o di castello di poppa.
Ho però cercato di limitare al minimo la terminologia nautica per evitare di appesantire troppo la narrazione, usando il più possibile termini dell’italiano corrente: quindi quando un marinaio deve indicare qualcosa dirà “alla nostra sinistra” invece che “a babordo”, spero che questo non irriterà troppo i puristi o gli amanti dei romanzi di Salgari.
Per quanto riguarda le navi vere e proprie, i romani nell’epoca che ci interessa ne conoscevano e utilizzavano molte varietà diverse. La tecnologia navale romana derivava direttamente da quella greca, e forse fenicia, quindi la scarsità di fonti letterarie dirette è spesso integrabile da informazioni sulla marina greca, oltre che dai recenti ritrovamenti dell’archeologia subacquea.
Sulle navi e barche da pesca e da trasporto merci sappiamo abbastanza poco: è probabile che esistessero pescherecci di tutte le dimensioni, dalla barchetta a due remi alla nave a due o tre alberi. Le navi che trasportavano il grano egiziano al porto di Ostia in età imperiale venivano descritte come in grado di trasportare carichi da tremila a diecimila anfore; considerato che un’anfora conteneva un po’ più di 26 litri e calcolando anche il peso del recipiente e della nave stessa, si parla di tonnellaggi che vanno da alcune centinaia alle mille tonnellate circa.
Le navi da guerra, le naves longae, navi lunghe, rendevano onore al proprio nome: erano tutte navi molto più lunghe che larghe, leggere e con poco pescaggio in modo da essere veloci e manovrabili. Erano tutte fornite di remi, oltre che di vela, tanto che venivano classificate in base al numero di rematori e al modo in cui erano organizzati.
Alla base di tutte le tipologie di navis longa stavano le antiche galee greche, la triacontere a trenta rematori e la pentecontere da cinquanta, come la nave Argo che nel mito degli Argonauti aveva percorso per prima le coste del Mar Nero. Erano navi a fondo relativamente piatto, con prua e poppa rialzate e normalmente senza ponte: in pratica uno scafo con solo i banchi per i rematori e gli scalmi per i remi, oltre all’indispensabile remo di governo largo e pesante, imperniato in modo da poter essere inclinato dal timoniere, in latino gubernator, per dirigere la nave.
Erano navi molto leggere e adatte soprattutto alla navigazione sotto costa, troppo fragili per reggere a lungo le onde in alto mare e senza sufficiente spazio per portare provviste per un lungo viaggio. D’altra parte la leggerezza dello scafo e il fondo quasi piatto permettevano abbastanza facilmente ai marinai di trascinarle sulla spiaggia durante le soste.
Nell’epoca che ci interessa erano in uso a scopo militare due classi di navi derivate per evoluzione dalla pentecontere: da una parte scafi sempre più leggeri, veloci e agili; dall’altra le più massicce navi da battaglia, bireme, trireme, quinquireme e anche più grosse.
Il principio su cui si basa la bireme è semplice: si costruisce una pentecontere un po’ più larga e profonda e si sovrappongono su ogni lato due file di remi e di rematori invece che una sola. In questo modo si ottiene una nave lunga come la precedente ma con il doppio di remi e quindi più veloce.
La trireme è un’ulteriore evoluzione nella stessa direzione: a una bireme veniva aggiunto un terzo ordine di remi, fino ad arrivare a 170, 85 per lato. È stato dimostrato recentemente che è possibile disporre le tre file di rematori in modo tale che tutti i remi siano lunghi uguali, cosa essenziale per mantenere un ritmo di vogata uniforme; per far questo i banchi dei rematori dell’ordine superiore, i thranites, si trovavano su una piattaforma leggermente sporgente dai fianchi dello scafo.
Se la trireme è più veloce e potente di una bireme, perché non aggiungere un quarto ordine di remi? Purtroppo non è possibile, perché ciascun rematore interferirebbe con i movimenti dei suoi vicini. La soluzione per realizzare una quadrireme consistette probabilmente nel costruire una trireme un po’ più larga e mettere due rematori a ciascun remo dell’ordine dei thranites.
E così via. Si sa che sono state usate in epoca romana navi fino a dieci ordini di rematori e ci sono riferimenti a navi speciali ancora più grandi, fino a una specie di mostro con due scafi collegati tra loro e quaranta ordini di rematori!
Tutte queste galee avevano alcune caratteristiche in comune: il timone era costituito da due remi di governo, uno per lato della poppa, collegati a un sistema di leve che permetteva a un solo uomo di controllarli. Inoltre avevano abitualmente due alberi, uno di maestra con vela quadra posto all’incirca al centro della nave e un secondo albero verso prua, inclinato in avanti su cui non si sa se venisse issata una vela triangolare o quadrata.
La caratteristica più importante era il rostro, uno sperone di bronzo che faceva parte della struttura della prua, subito sotto la linea di galleggiamento e che nelle navi più grosse arrivava a pesare diversi quintali. Sin dai tempi della Grecia classica, e probabilmente da molto prima, la tecnica principale del combattimento tra navi consisteva nel cercare di speronare la nave avversaria con il rostro in modo da sfondarne lo scafo.
Alla tecnica del rostro i romani aggiunsero quella del corvus, una specie di ponte mobile montato sulla prua della nave che, dopo aver agganciato una nave nemica, veniva calato per permettere ai milites di abbordarla e di eliminarne l’equipaggio. Pare che il corvus peggiorasse troppo la stabilità della nave e quindi venne abbandonato poco dopo la fine delle Guerre Puniche.
A partire dalla prima Guerra Punica e fino all’epoca di Augusto, la marina romana utilizzava soprattutto quinquiremi e triremi, oltre a un certo numero delle navi più grosse, limitate però dal costo enorme e dal numero di rematori necessario.
Augusto nella battaglia navale di Azio nel 31 aC sconfisse la flotta di Marco Antonio sfruttando in modo sistematico una nuova tecnica: invece di impiegare le costose e ingombranti quinquiremi, la sua flotta era quasi completamente composta da liburnae, piccole navi a cinquanta rematori, completamente coperte da un ponte, che attaccavano soprattutto usando armi da lancio, ballistae o scorpiones.
In età imperiale la liburna sostituì quasi completamente le navi più grosse e si ritiene che le flotte fossero composte quasi esclusivamente da queste e da triremi.
Un altro tipo di nave leggera, la hemiolia, è citata nel racconto come usata dai pirati. Era una nave molto piccola, lunga probabilmente la metà di una liburna o anche meno, e deve il suo nome, che significa “uno e mezzo” al fatto che aveva su ciascun lato una fila completa di rematori (probabilmente dieci o dodici) e una seconda fila lunga la metà, nella sezione centrale che offriva più spazio rispetto alla poppa e alla prua affusolate.
Non si sa se anche le file di remi fossero una e mezzo o se piuttosto a ciascuno dei remi centrali ci fossero due rematori. La hemiolia era comunque una nave piccola, ma estremamente veloce e agile, perfettamente adatta ad attaccare e abbordare una lenta nave da carico.
Le navi
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