Capitolo 1


Olisipo, Prid. Id. Mart. 873 AUC

Il trierarca I. Tiberio Dominico, in piedi sulla banchina del porto di Olisipo, ammirava orgoglioso la grande nave ormeggiata lì a fianco. La Inceptio, la sua nave.
Ne percorse con lo sguardo la fiancata dalla prua, ornata dalla tutela, un busto ligneo del dio Ianus, e armata di un grande rostro di bronzo in grado di sfondare il fianco di una nave nemica in combattimento, l’albero di trinchetto leggermente inclinato in avanti, la fiancata con i fori degli scalmi di decine di remi (non li contò, ma sapeva bene che erano ottantacinque per lato), gli alberi di maestra e di mezzana, ciascuno con la sua vela raccolta e imbrigliata al pennone, l’alto castello di poppa sovrastato dalla struttura del ponte discoidale, le due scialuppe legate ai lati della poppa e infine il grande timone a coda di pesce.
Era una nave molto grande, ed era bellissima. Lunga cento cubiti dalla punta del rostro al timone e larga dodici cubiti senza contare i banchi di voga della fila superiore, che sporgevano quasi di altri due cubiti per lato. Il disco, di diciotto cubiti di diametro, si estendeva di quasi quattro oltre la coda del timone. Inoltre, anche se questo non si poteva vedere, la nave aveva anche una stiva molto più profonda di quella di una normale trireme: invece dei soliti tre cubiti di pescaggio, questa nave scendeva di sette sotto il pelo dell’acqua.
– Bella nave, vero? – Chiese Dominico senza voltarsi al suono dei passi che si avvicinavano.
– Sembra molto efficiente, trierarca. – Il nuovo arrivato era un uomo snello e molto alto: Dominico, che era di statura media, gli arrivava appena all’altezza delle spalle. Aveva capelli lisci e nerissimi pettinati all’indietro, un viso lungo e sottile con lineamenti leggermente orientali che tradivano le sue lontane radici persiane: era infatti nato a Nicaea in Bithynia.
– Sì, Aktis, sono d’accordo, ha un aria efficiente; ma non ti pare che sia anche bellissima?
– Non saprei, e onestamente non vedo che importanza abbia: a una nave chiedo solo che mi porti velocemente e con sicurezza dove devo andare. Dopo tutto, – aggiunse – una volta a bordo di lei vedremo solo il ponte: che sia bella o brutta non avrà molta importanza.
– Che atteggiamento insensibile, centurione, spero che tu non creda seriamente a quello che hai appena detto. – A parlare per ultimo era stato un ometto appena arrivato alle spalle degli altri due.
– Certo che lo credo veramente, Gibil, non vedo perché dovrei preoccuparmi dell’aspetto esteriore di un oggetto che non è altro che uno strumento per raggiungere uno scopo. Lo trovo un atteggiamento illogico e potenzialmente pericoloso: è raro che la forma più razionale sia anche la più bella e chi preferisce la bellezza all’efficienza rischia di ritrovarsi con strumenti belli, ma inadeguati.
Gibil era il medico di bordo della Inceptio ed era originario di Babilonia. Lui e Aktis si conoscevano bene, provenivano entrambi dalla Legio VII Claudia, e non perdevano occasione di punzecchiarsi a vicenda: – Credo che tu sbagli, centurione, perché ciò che noi riconosciamo come bello è ciò che più si avvicina al vero, alla natura ideale dell’oggetto. Chi è insensibile alla bellezza, alla simmetria e all’armonia è un essere incompleto, che non sviluppa appieno le potenzialità della sua anima.
– Può darsi che tu abbia ragione, medico, – gli concesse il centurione – ma preferisco essere incompleto che affidare la mia vita a una nave bella ma inefficiente.
Bene amici, – li richiamò Dominico che aveva seguito il battibecco sogghignando – se avete finito di litigare che ne direste se salissimo a bordo di questa bellissima ed efficientissima nave che ci dovrà portare a scoprire nuove terre?
– Certamente trierarca. – Rispose Aktis salendo la passerella che collegava la banchina al ponte della nave.
A bordo regnava il solito caos organizzato che precede la partenza di una nave: casse, barili e anfore ingombravano in più punti il ponte e i passaggi tra i banchi di voga, un gruppo di quattro operai stava imprecando cercando di calare nella stiva una cassa troppo grande e che dava l’impressione di essere molto pesante; altri erano affaccendati a trasportare varie componenti del carico.
I tre si diressero verso poppa per lasciare il massimo spazio possibile ai facchini e salirono la scaletta che dava accesso alla struttura del ponte di comando o, come già lo chiamavano confidenzialmente, il disco.


Il disco era formato da una piattaforma perfettamente circolare di diciotto cubiti di diametro, sostenuta dalle travature del castello di poppa a un’altezza di circa otto piedi al di sopra del ponte.
Quasi al centro del disco stava il grande argano da cui partivano due grossi cavi che attraversavano il tavolato per raggiungere il meccanismo di leve e paranchi che manovrava il timone a coda; il gubernator Sobadako, un omone grande e grosso originario della Scythia con i capelli scuri tagliati cortissimi, era già in posizione dietro la ruota dell’argano.
Lungo il parapetto che segnava la circonferenza del disco si vedevano svariate attrezzature: c’erano gli argani, che sarebbero serviti per calare e sollevare le due scialuppe e per manovrare le grandi reti utilizzate sia per la pesca che per caricare e scaricare merci, mentre alla murata di sinistra erano fissati diversi apparecchi dall’aspetto complicato, guardati a vista da Claudio Tolomeo, il giovane astrologo e geografo della spedizione e dai suoi assistenti. La maggior parte dello spazio era però occupata da una quantità di grandi tavoli, inchiavardati al tavolato del disco, su cui avrebbero lavorato i cartografi e i physiologi, il personale filosofico della spedizione.
Mentre i tre ispezionavano le varie postazioni del disco sentirono arrivare dal pontile il suono familiare del passo cadenzato dei legionari. Affacciandosi alla murata videro le tre centuriae che, marciando lungo il pontile, stavano cominciando a salire a bordo. Duecentoquaranta milites in armatura completa, ciascuno con la sua sarcina appesa all’estremità di una lunga furca. Guardando meglio Gibil notò che il braccio di ciascuna furca era in realtà costituito da un remo.
Si trattava in effetti di un’altra particolarità unica di questa spedizione: l’equipaggio non era costituito da remiges, rematori professionisti, ma da legionari veterani che si erano offerti volontari per questa missione. La cosa era notevole, soprattutto considerando quanto scarsa fosse la considerazione che i legionari rivolgevano in genere ai remiges, ma vista l’eccezionalità dell’impresa era stato ritenuto fondamentale avere a bordo un numero adeguato di soldati esperti. La prospettiva di un’ottima paga e il fascino di un’avventura mai tentata prima avevano fatto sì che non fossero mancati i volontari.
L’equipaggio era quindi organizzato, contro le tradizioni della marina militare, in una cohors ridotta di tre centuriae, con Aktis come pilus prior e altri due centurioni sotto di lui7. Dei duecentoquaranta legionari, centosettanta erano addetti ai remi, mentre i rimanenti erano tenuti di riserva o erano specialisti immunes: i chirurghi e i capsarii dipendevano da Gibil, il medico; i fabri e i carpentieri dal magister fabrum, Quinto Virginio Caledonio; infine c’era un gruppo di dispensieri e cucinieri, addetti alla cura delle provviste di cibo e dei grandi barili d’acqua e posca. In aggiunta ai legionari c’erano anche una trentina di marinai esperti, sotto il comando del gubernator Sobadako, che si occupavano della manovra di vele, ancore e scandagli.
L’equipaggio era ormai già tutto imbarcato, il carico era stato stivato come pure le armature e le sarcinae dei legionari e i marinai stavano già salendo sui pennoni per prepararsi a sbrogliare le vele, quando finalmente arrivò sul molo l’ultimo componente dell’equipaggio.
Clearco di Atene era in realtà a tutti gli effetti solo un passeggero su questa nave, essendo l’ufficiale che avrebbe comandato la gemella Viatrix, attualmente in costruzione, nel suo viaggio boreale. Era stato invitato a partecipare, in qualità di ospite, al viaggio inaugurale della Inceptio in modo che potesse vedere con i propri occhi le caratteristiche e le potenzialità, nonché gli eventuali difetti, di questa nave identica a quella che avrebbe dovuto comandare lui stesso l’anno successivo.
Dominico era un homo novus, nato da una famiglia di proprietari terrieri del sud dell’Etruria aveva iniziato a percorrere il cursus honorum fino a raggiungere il suo attuale grado, ma non sembrava particolarmente interessato a procedere oltre; la sua insofferenza per la burocrazia e la tendenza a ignorare o aggirare le regole non ne avevano certo favorito la carriera. In compenso i suoi uomini lo adoravano, in quanto era un comandante nato: conosceva per nome tutti i suoi sottoposti, si preoccupava di loro e del loro morale e tutti sapevano che non avrebbe mai approfittato del proprio rango per ottenere privilegi. I suoi avversari lo reputavano un debole e un cattivo esempio per i suoi ufficiali, inadatto a mantenere quella ferrea disciplina che era da sempre il vanto delle legioni di Roma.
Clearco di Atene, il trierarca designato della Viatrix, aveva un carattere diametralmente opposto: pur essendo ovviamente un civis romanus era di nascita aristocratica ed estremamente orgoglioso della sua origine greca. Era un ufficiale capace, che imponeva una ferrea e brutale disciplina; se non era amato dai suoi milites come Dominico era certo temuto e rispettato, e questo per lui era più che sufficiente.
Era difficile immaginare due comandanti più diversi tra loro e in molti si chiedevano per quale motivo gli organizzatori della missione avessero deciso di affiancare al comando delle navi due ufficiali dal temperamento e dalle capacità così differenti. L’effetto principale di questo accostamento risultava però chiaro a tutti: tra i due comandanti si era subito stabilita una rivalità non troppo velata, con ciascuno di essi deciso a dimostrare all’altro la superiorità dei propri metodi di comando.


Clearco salì a bordo e venne rapidamente accompagnato al disco, dove venne accolto dal trierarca che lo presentò agli altri; finalmente gli ormeggi vennero sciolti e la grande nave iniziò il suo primo viaggio.


7 I remiges delle navi romane erano in genere organizzati in un’unica centuria allargata di 170 uomini, con a capo un singolo centurione.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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