Capitolo 12


Aestii

È il nono giorno delle Kalendae di Iulius e l’andamento della nostra spedizione comincia a mostrare i segni evidenti dell’accanimento di un’avversa fortuna. Clearco è sempre più irascibile e i milites dell’equipaggio hanno imparato ad evitarlo il più possibile, ma nello spazio ristretto di una nave pur grande come la Viatrix questo non è sempre facile.
Eravamo rimasti all’undicesimo giorno delle Kalendae di Iunius quando, dopo aver caricato grano, orzo, carne ed acqua, abbiamo lasciato la foce della Vistula abbandonando il territorio dei burgundi e abbiamo cominciato a navigare verso est costeggiando il territorio degli aestii. Il risultato netto di questi trentadue giorni di navigazione è stato di spostarci di poco più di trecento miglia verso nord! Com’è stato possibile?
E quanto altro tempo perderemo per tirarci fuori da questo impiccio? Sono questi i dubbi che stanno facendo infuriare il nostro trierarca e, a ben pensarci, non del tutto a torto.
Procediamo con ordine: come ho già narrato, poco dopo essere usciti dal delta della Vistula la linea della costa ha girato verso nord e ha proseguito in quella direzione per oltre cento miglia.
Qui la costa si apre in una grande insenatura, lunga e larga più di cento miglia, che naturalmente abbiamo dovuto percorrere interamente prima di scoprire che si trattava appunto di un golfo chiuso e non di uno stretto da cui potessimo proseguire verso est. Abbiamo comunque approfittato della presenza dell’estuario di un grande fiume, all’estremità meridionale del golfo, per fare una sosta e rinnovare la scorta d’acqua potabile.


Probabilmente tutti voi conoscete l’electrum, o ne avete almeno una volta visto un frammento. Si tratta di uno strano minerale, molto più leggero della maggior parte delle pietre, ed esiste in molte varietà di colore, dal giallo pallido del grano maturo al rosso fuoco. Al tatto non è freddo come la pietra o il metallo ed è trasparente o traslucido: le varietà più pure e pregiate sono di colore uniforme e perfettamente trasparenti come il vetro.
Per queste sue caratteristiche, e soprattutto per il modo in cui la luce ne accende i colori e lo rende brillante, l’electrum è stato sempre associato al sole e, non a caso, tutte le teorie sulla sua origine riconducono all’astro diurno.
Gli antichi sostenevano che l’electrum si fosse formato dal pianto delle figlie di Helios alla morte del loro fratello Phaeton, quando questi precipitò dal carro del sole. Le loro lacrime cadute in mare si sarebbero solidificate, diventando le gocce di electrum che oggi noi troviamo e consideriamo così preziose.
Altri ritengono che questa pietra nasca dai raggi stessi del sole al tramonto: quando l’astro scende a sera verso l’orizzonte occidentale i suoi raggi, sempre più obliqui, toccano la superficie di Oceano. Il contatto con l’acqua fredda, solidifica i raggi solari e li trasforma in un materiale che, raffreddandosi ulteriormente, diventa duro quasi come la pietra. Questi frammenti congelati vengono poi portati dalle onde finché non giungono alle sponde dei mari boreali dove vengono raccolti.
La terza teoria è molto meno poetica delle precedenti anche se, probabilmente, è quella che più si avvicina alla verità. È uno sgradevole fatto del mondo che ogni physiologo o filosofo deve imparare ad accettare: le rozze spiegazioni materialistiche sono più spesso corrette di quelle mitiche o poetiche. È spiacevole dover constatare come il mondo sembri ignorare il fascino e la poesia a favore delle crude cause meccaniche!
La terza teoria, dicevo, si basa sull’osservazione che strofinando o scaldando un grano di electrum si sprigiona un aroma molto simile a quello della resina di pino. Questo, unito al fatto che la stessa resina esposta all’aria aperta e al sole diventa gradualmente meno fluida e più dura, e che il colore della resina di diverse varietà di pino assume gli stessi colori della maggior parte delle qualità di electrum, ha portato a sviluppare la seguente ipotesi: nella remota antichità, prima che l’umanità arrivasse ad abbatterle per costruire le navi e i tetti delle abitazioni, dovevano esserci sterminate foreste di pini i quali, anno dopo anno, producevano resina che si accumulava a terra. Questa resina, esposta alla luce del sole e al soffio del vento, si sarebbe lentamente solidificata e, essendo passato da allora tanto tempo, sarebbe ora diventata il duro electrum che conosciamo.
Quale che sia la sua origine, si tratta comunque di un minerale molto pregiato e di costo assai elevato, che viene importato a Roma e in Egitto in quantità considerevoli. Il prezzo altissimo dell’electrum a Roma e nelle terre ad essa soggette è causato soprattutto da tre fattori: la molteplicità dei suoi utilizzi, la sua rarità e il lungo tragitto che deve percorrere a partire dai luoghi in cui viene raccolto.
In medicina viene utilizzato come rimedio per i dolori e le infiammazioni della gola e dei polmoni e come cura contro la sterilità e l’impotenza; è grandemente apprezzato dai gioiellieri per la realizzazione di ciondoli e amuleti di vario genere, molto richiesti in quanto si ritiene che abbiano la proprietà di scacciare gli spiriti maligni; scaldando la polvere di electrum si estrae un’essenza che serve come ingrediente per la preparazione di costosi profumi e infine, la sostanza stessa, viene bruciata come incenso durante alcune cerimonie religiose. Inoltre, proprio per la sua rarità e altissimo costo, l’electrum viene impiegato per realizzare piccoli oggetti e sculture, senz’altro motivo che il poter dimostrare così il fatto che il loro proprietario è abbastanza ricco da poterseli permettere: ho visto una volta ad Alexandria un nobile patrizio romano giocare d’azzardo con un paio di dadi realizzati in electrum!
È noto da secoli che questo materiale proviene, quantomeno per la maggior parte, dai paesi a nord e a est dell’ecumene. Si dice che già da prima dell’ascesa del potere di Roma, o forse della sua stessa fondazione, il luogo da cui l’electrum si diffondeva nei paesi intorno al Mare Internum fosse Hadria, la città da cui il Mare Hadriaticum prende il nome, nel porto della quale arrivavano per commerciare le navi di galli, greci, fenici ed etruschi.
Ma l’electrum non proviene da Hadria, che è solo l’ultimo anello di una lunga catena di mercati attraverso cui esso transita proveniendo dal lontano nordest. Si sa che arriva ad Hadria da Aquileia, ed è qui portato dai veneti che lo acquistano dai galli boii al di là dalle Alpi. Dove questi ultimi se lo procurino è sempre stato oggetto di speculazioni, ma in generale si ritiene che attraversi il territorio di diverse tribù germaniche, proveniendo in definitiva dalla terra degli aestii o dei fenni.
Tutti questi passaggi da mercante a mercante e tutte le migliaia di miglia che ogni singolo pezzetto di electrum deve percorrere prima di giungere a Roma, fanno salire il suo prezzo a livelli indicibili, al punto che le varietà più pregiate e i pezzi dal colore più puro e luminoso possono arrivare a costare persino più del loro peso in oro.


Vi starete forse chiedendo il perché di questa mia lunga divagazione sul tema dell’electrum. È presto detto: durante la nostra sosta alla foce di questo fiume nel territorio degli aestii, mentre i milites dell’equipaggio sono impegnati a scaricare e caricare i grandi barili dell’acqua potabile io e i miei assistenti scendiamo a terra per effettuare le nostre solite misurazioni. Purtroppo il terreno da queste parti è assolutamente piatto, senza montagne che possano servirci per triangolare e correggere le misure di distanza tra le nostre posizioni, quindi dobbiamo affidarci interamente alla rilevazione del clima e alle distanze misurate dall’odometro della Viatrix.
Approfitto della sosta e decido di lasciare la meridiana e la dioptra ai miei assistenti per andare a vedere da vicino la spiaggia di questo Oceano boreale; sparsi qua e là sul litorale sabbioso noto alcuni piccoli ciottoli di uno strano colore rosso fuoco che mi incuriosiscono: la mia prima impressione non mi aveva ingannato: si tratta davvero di frammenti di electrum!
Si tratta, a mio parere, di una scoperta importante in quanto, come dicevo prima, nessuno ha mai potuto individuare il luogo da cui viene in definitiva l’electrum. Se avessimo veramente trovato la sua fonte, in futuro i mercanti romani potrebbero venirlo a comprare direttamente qui saltando un numero imprecisato di intermediari, e quindi pagandolo un prezzo molto inferiore. Raccolgo altri tre o quattro campioni e torno rapidamente alla Viatrix per riferire al trierarca della mia scoperta.
Per la prima volta, appena ha capito quello che gli sto dicendo, Clearco mi ascolta interessato e senza quella espressione di fastidio e sufficienza che di solito sfoggia quando è costretto a sopportarmi. In effetti sembra molto colpito dalle mie osservazioni e si congratula con me per la scoperta, raccomandandomi però di mantenere il silenzio assoluto su questa faccenda. Considerato l’elevato valore dell’electrum, dice, questa notizia potrebbe accendere l’avidità di qualcuno tra gli uomini dell’equipaggio e provocare disordini: per il bene della disciplina di bordo è meglio che la scoperta rimanga segreta fino a quando, ritornati a Roma, ne parleremo con chi di dovere.
Non sono sicuro di condividere pienamente le sue preoccupazioni al riguardo, ma naturalmente ho acconsentito a giurare di mantenere il segreto, dato che è lui il comandante della spedizione. Non che la cosa abbia probabilmente molta importanza: ciò che più conta è che l’ubicazione della spiaggia del Sinus Electri venga conosciuta a Roma quando torneremo.


Uscendo dal golfo dobbiamo fare un’ulteriore deviazione di un centinaio di miglia per girare attorno ad alcune grandi isole separate dalla costa da canali che il nostro gubernator giudica troppo pericolosi per essere navigati; aggirate queste, la rotta riprende finalmente in direzione est, nonostante la costa continui a essere abbastanza frastagliata e cosparsa di piccole isolette.
Al settimo giorno di navigazione verso oriente, certi ormai di essere ormai sulla giusta rotta per raggiungere le coste della Seria, scopriamo di essere di nuovo in un vicolo cieco: il mare termina in un golfo largo appena un decina di miglia, senza nessuno sbocco a oriente.
Continuiamo quindi a seguire pazientemente la costa che, con nostro orrore, si dirige di nuovo a occidente: secondo i nostri rilievi quello che abbiamo percorso negli ultimi otto giorni è un ramo di mare ampio non più di cinquanta miglia e, dopo averne seguito la costa settentrionale, ci ritroviamo un’altra volta quasi al punto di partenza.
E quindi adesso, dopo trentadue giorni di navigazione, secondo i miei calcoli siamo a sole trecento miglia a nord della foce della Vistula, seguendo una rotta che ci sta riportando inesorabilmente verso occidente. Potete quindi capire che l’irritazione del trierarca è ben giustificata.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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