Capitolo 11


Castrum Asif, prid. Id. Iun. 874 AUC

Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
Dopo tre mesi di navigazione è bello potersi fermare a terra per qualche giorno. Da quattro giorni la nave è all’ancora nell’ansa del fiume, e l’equipaggio non è certo rimasto inattivo.
A causa della presenza di grossi predatori, ghepardi, leoni e una specie di grosso lupo maculato che assomiglia vagamente a una iena, abbiamo allestito un accampamento in piena regola e mantenuto turni di guardia doppi per tutto il tempo della nostra permanenza sulle rive dell’Asif, ma tutto è andato per il meglio e le fiere si sono tenute alla larga dal nostro perimetro.
Il magister fabrum Caledonio ha compiuto miracoli per realizzare in soli due giorni un affumicatoio perfettamente efficiente e, con due centuriae impegnate a raccogliere legna e una a cacciare, abbiamo ottenuto notevoli risultati: abbiamo già ucciso, macellato e affumicato otto di quei grossi animali simili a stambecchi e due dozzine di gazzelle.
Contiamo di fermarci qui per altri tre o quattro giorni, prima di riprendere il mare e continuare il nostro viaggio verso sud.

– Allora, Claudio Tolomeo, le stelle ti hanno detto dove siamo adesso? – Il tono del medico era scherzoso, ma dopo le due scommesse perse aveva acquisito un certo rispetto per le capacità del giovane astrologo.
Tolomeo e i suoi assistenti avevano approfittato della lunga sosta in riva al fiume per scaricare dalla nave una quantità di strumenti e allestire un piccolo osservatorio all’estremità sudorientale del castrum.
– Più o meno. – Rispose Tolomeo evasivamente: – Secondo i miei calcoli siamo circa millecinquecento miglia a sud di Alexandria. È un po’ più difficile dire di quanto siamo andati ad ovest: la posizione delle stelle cambia spostandosi da nord a sud, ma non quando ci si muove da est a ovest.
– Quindi non hai modo di determinare questa distanza? – Intervenne Aktis.
– Non in modo diretto, e quindi non con sufficiente precisione. Durante il viaggio abbiamo costantemente controllato l’orientamento della costa rispetto alla direzione sud e, mediante l’applicazione di principi geometrici, abbiamo stimato di quanto la nostra rotta ci abbia portato verso est o verso ovest a ciascuna tappa del viaggio. Non è un metodo che definirei veramente preciso, – insistette l’astrologo – ma una volta che saremo arrivati in Egitto e avremo un altro punto di riferimento noto, potremo almeno in parte correggere l’imprecisione dei i nostri risultati. Comunque, secondo i miei calcoli, dovremmo essere circa cinquecento miglia a ovest di Tamusiga, quindi tremila a ovest di Alexandria.
– Quindi abbiamo già fatto un bel po’ di strada.
– Considerando la deviazione che abbiamo fatto per raggiungere le Insulae Fortunatae, abbiamo navigato per circa duemilacinquecento miglia. Naturalmente, non abbiamo modo di sapere quanto sarà lungo il resto del viaggio.
– Logico. – Concordò Aktis: – Se sapessimo già cosa ci aspetta non avremmo bisogno di esplorare per scoprirlo.


Trierarca, Vieni a vedere! – Era passato da poco mezzogiorno, il quarto giorno dal loro arrivo alle rive dell’Asif; la voce di Aktis, normalmente impassibile, tradiva una certa preoccupazione e Dominico si precipitò a seguirlo.
Attraversarono l’agger dalla Porta Praetoria, al centro del lato settentrionale, e si fermarono al limite del fossum scansando un gruppetto di milites che scrutavano allarmati verso l’orizzonte: una lunga carovana di uomini e cammelli si stava avvicinando da nord puntando all’apparenza direttamente verso di loro, ed era già a meno di due miglia di distanza.
Dominico si rivolse ai milites che stavano lì a guardare: – Voialtri, invece di restare qui a guardare andate a cercare Azrur e fatelo venire qui, subito! – E poi, di nuovo rivolto ad Aktis: – Quanti saranno secondo te? E che cosa vorranno?
– Molti, trierarca. Con tutta quella polvere sollevata dai cammelli è difficile vedere bene, ma direi che ci sono circa duecento animali e probabilmente tre o quattrocento uomini. Quanto alle loro intenzioni… – Aktis scrollò le spalle – come possiamo saperlo? Aspettiamo che si avvicinino, lo scopriremo anche troppo presto.


Nel tempo necessario per trovare Azrur e farlo arrivare alla porta Praetoria la carovana si era avvicinata fino a circa un quarto di miglio e aveva cominciato ad allestire un accampamento. La lunga colonna di uomini e cammelli si stava lentamente trasformando in una dozzina di bivacchi, qualcuno cominciava a montare delle tende e, adesso che erano più vicini, si poteva vedere che avevano con sé anche dei greggi di capre.
Azrur rimase per qualche tempo in silenzio ad osservare tutta questa attività e poi si rivolse a Dominico: – Direi che sono imazighen, gli uomini liberi, il popolo del deserto. La loro lingua non è molto diversa dalla mia, quindi non dovrei avere difficoltà a parlare con loro.
– Ma che cosa stanno facendo in questo posto? – Chiese Dominico un po’ allarmato: – Sembra che vogliano allestire un accampamento permanente.
– Non credo, penso che sia un normale campo durante una delle loro migrazioni. Gli imazighen passano la maggior parte del tempo spostandosi nel deserto da un campo all’altro: hanno villaggi o vere e proprie cittadine nelle oasi più grandi, dove c’è acqua a sufficienza e si può coltivare un po’ di terra; la maggior parte di loro invece migra da un accampamento provvisorio all’altro con carovane che sono a volte formate da intere tribù, come sembra appunto che sia questa.
– E quindi ritieni che sia un caso se si stanno accampando proprio di fronte a noi?
– Probabilmente no, trierarca, – rispose Azrur con un lieve sorriso – forse anche loro si stanno domandando cosa ci facciamo qui noi.


Gli imazighen si rivelarono un popolo abbastanza amichevole, e come Azrur aveva previsto parlavano una lingua molto simile alla sua, per cui non fu difficile intendersi a vicenda.
Amedras, il capo della tribù, era incuriosito e un po’ preoccupato per la presenza degli irumien, dei romani, così lontano a sud del Sahr. Non si erano mai visti prima irumien da queste parti e da un giorno all’altro erano qui e stavano costruendo una città.
Ci volle un po’ di tempo perché Azrur lo convincesse che il castrum non era una città ma solo un accampamento temporaneo, e che loro erano solo di passaggio mentre volevano spingersi ad esplorare ancora più a sud di dove erano ora e che, no, non avevano intenzione di rivendicare diritti su quel territorio.
Quando finalmente il capotribù fu rassicurato del fatto che gli irumien non intendevano impedire alla sua tribù l’accesso a questo tratto del fiume, luogo in cui tradizionalmente si fermavano per cacciare e riposarsi, i rapporti divennero molto più cordiali e distesi: Dominico, Aktis e il personale civile della spedizione furono invitati a cena intorno al fuoco di Amedras, ovviamente insieme all’indispensabile Azrur come traduttore.
La cena fu piacevole: stufato di carne di capra, alcune verdure che i romani non avevano mai assaggiato prima, formaggio, pane d’orzo e datteri essiccati. Dominico approfittò dell’occasione per parlare di affari con Amedras: gli imazighen avevano con loro abbondanti scorte e i romani stavano ormai terminando le loro ultime provviste di cereali.
Dopo una lunga contrattazione Amedras accettò di cedere agli irumien mille modii di orzo e miglio, cinquecento librae di formaggio di capra e centocinquanta di datteri in cambio di cento librae di ferro battuto e cinquecento denarii d’argento. Il prezzo concordato era esorbitante ma Dominico accettò di buon grado di pagarlo visto che non sapevano se e quando, proseguendo verso terre sempre più selvagge e sconosciute, avrebbero potuto procurarsi ancora dei cereali.
Caledonio era notevolmente contrariato all’idea di doversi separare da una parte consistente della sua preziosa riserva di ferro, che avrebbe potuto rivelarsi indispensabile per future riparazioni alla nave, ma Dominico fu irremovibile: il ferro non si mangia, e se i milites avessero saputo che avevano rinunciato alla possibilità di comprare del frumento avrebbero potuto esserci dei disordini.
Terminata la cena, dal cerchio di persone intorno al fuoco si alzò un vecchio che si diresse al centro e fece un breve discorso a cui risposero diversi commenti di approvazione.
Azrur si chinò verso Dominico e spiegò sottovoce: – Ha detto che racconterà la storia di Amezyan, il figlio delle stelle. I racconti intorno al fuoco sono una tradizione degli imazighen e i bravi narratori godono di un alta considerazione tra loro. Cercherò di tradurre il racconto anche se dovrò riassumere e semplificare: farò quello che posso, ma certo non potrò rendere a dovere il tono dell’originale.


Il vecchio cominciò a raccontare:
– Tanto tempo fa – tradusse Azrur – c’era un uomo chiamato Yuften che aveva una giovane moglie di nome Tazrut. Dopo un anno dal loro matrimonio, Tazrut era incinta e Yuften sperava che il figlio fosse un maschio e che avesse il suo stesso aspetto. Man mano che il giorno del parto si avvicinava, questa aspettativa stava diventando per lui un’ossessione: «Mi assomiglierà?» si chiedeva Yuften, e non riusciva a pensare ad altro.
– Quando finalmente nacque il figlio, era un maschietto, ma il suo viso era il ritratto di Tazrut, la madre. Appena Yuften lo vide esclamò: «Questo non è mio figlio, non mi assomiglia per niente!»
– La vecchia levatrice che aveva aiutato Tazrut durante il travaglio e il parto e aveva conoscenze di incantesimi e stregonerie, lo sentì e gli disse: «A questo si può rimediare». Prese il bambino e lo portò fuori dalla tenda, era una notte senza luna. Qui tracciò un cerchio nella sabbia, si mise al centro del disegno con il bambino in braccio e cantò un lungo incantesimo, spargendo intorno a sé il contenuto di un braciere che aveva preso dalla tenda. Alla fine restituì il bambino al padre dicendo: «Ecco, questo è tuo figlio». E il bambino adesso era davvero uguale al padre, che ne fu felice.
– Yuften sarebbe stato meno contento se avesse saputo che quello che teneva in braccio non era affatto suo figlio: gli incantesimi della vecchia avevano comandato alcuni spiriti della notte che avevano sostituito il bambino con un simulacro senz’anima.
– Con il passare degli anni il bambino, che fu chiamato Amenzu che vuol dire primogenito, crebbe e diventò sempre più somigliante a Yuften, ma era uno sfaticato, un buono a nulla che non si interessava a niente. La madre Tazrut si disperava, perché sapeva che l’incantesimo le aveva portato via il suo vero figlio e lo aveva sostituito con un immagine vuota, un corpo senza un’anima.
– Ma dov’era andata l’anima del bambino? Quando la vecchia aveva operato la sostituzione del figlio di Yuften, gli spiriti della notte avrebbero voluto prendersi in cambio il corpo e l’anima del bambino, come parte dell’accordo con la strega e approfittando del fatto che la notte era buia e la luna non si faceva vedere.
– Ma il loro intento fallì per l’intervento di Amanar, il Cacciatore, la più possente delle stelle del cielo. Amanar dall’alto vide cosa stava succedendo e, proprio al momento giusto, prese il bambino e lo portò con sé in cielo. Così Amanar salvò il bambino e lo chiamò Amezyan, il secondo nato, e lo accompagnò da Tatrit Tan Tufat, la Stella della Sera.
– Tatrit Tan Tufat si fece raccontare da Amezyan la sua storia e decise di affidarlo alle Chat Ahadh, le Figlie della Notte, le sei stelle che voi romani chiamate Pleiadi. Amezyan rimase in cielo e crebbe e diventò un uomo, e finché rimase con loro le Chat Ahadh furono sette.
– Vivendo tra loro Amezyan imparò a conoscere tutte le stelle del cielo: Eydi il cane di Amanar, Ihenkadh la gazzella che lui sta cacciando, Talemt e Aùra che sono le costellazioni che i romani chiamano la Grande e la Piccola Orsa, Tazeit il Palmeto che voi chiamate lo Scorpione, e tutte le altre.
– Avrebbe potuto rimanere una stella del cielo, felice e per sempre, ma un giorno fu preso dalla nostalgia della sua terra, della madre che non aveva mai conosciuto e del suono del vento che soffia sulle sabbie del deserto. Ne parlò con Tatrit Tan Tufat che gli rispose che sì, forse avrebbe dovuto davvero tornare sulla terra, da sua madre che ancora piangeva per la sua perdita. Ne discussero insieme con Amanar che si disse anche lui d’accordo.
– Amezyan tornò quindi sulla terra e si recò a conoscere sua madre, che fu felice di vederlo tornare al di là di ogni speranza. Decisero insieme che lui non avrebbe cercato di farsi riconoscere da suo padre, ma avrebbe seguito il consiglio di Amanar e sarebbe diventato un pastore.
– Infatti gli spiriti della notte non si erano certo dimenticati di lui e ogni tanto gli tendevano degli agguati per cercare di rapirlo, in quanto ritenevano di avere il diritto di prenderlo e farlo diventare uno di loro per via dell’incantesimo fatto dalla vecchia strega quando era appena nato.
– Ma Amezyan, come pastore, passava le notti all’aperto e le stelle lo proteggevano: tutte le volte che gli spiriti cercavano di catturarlo una stella scendeva rapidissima dal cielo per aiutarlo e gli spiriti della notte, nonostante tutti i loro tentativi, non sono mai riusciti a prenderlo.


Il vecchio aveva finito il suo racconto e il suo pubblico si stava congratulando con lui e Dominico si chinò verso Azrur: – Per favore ringrazialo anche a nome nostro, ha raccontato una storia molto bella.
Azrur scambiò qualche parola con il narratore che fece un sorriso sdentato di ringraziamento inchinandosi verso il trierarca.
– Credo, – commentò Claudio Tolomeo – che questa storia oltre a essere bella contenga anche più di un seme di verità.
– Intendi dire che non è semplicemente una favola, ma potrebbe essere il racconto di qualcosa realmente accaduto?
– Non posso saperlo, trierarca, però in effetti le antiche storie greche parlano sempre di sette Pleiadi, ma noi ne vediamo solo sei. – Rispose Tolomeo evasivo: – Può essere forse che questa storia racconti di un tempo in cui le Sorelle erano davvero sette?
– Forse sì. Però, – aggiunse ancora Dominico cambiando argomento – sbaglio o questa storia tu la conoscevi già, Azrur? Ho avuto l’impressione che in qualche caso la tua traduzione anticipasse la narrazione.
– Sì, trierarca, non ti sbagli: la storia di Amezyan il Figlio delle Stelle la conoscevo già da prima. Naturalmente non l’avevo mai sentita raccontare così dagli imazighen del deserto, ma è una storia molto antica, che fa parte delle tradizioni del mio popolo.
– Del tuo popolo? – Si stupì Dominico: – Io pensavo che tu fossi un mazace della Mauretania, non un imazighen del deserto.
– Si dice amazigh, trierarca, imazighen è il plurale. – Lo corresse Azrur con un sorriso. E poi, facendosi più serio: – Certo, io sono un mazace, questo è il nome che voi romani date a noi che viviamo nelle città. È solo il vostro modo di pronunciare lo stesso nome, amazigh, ma è giusto così: noi che viviamo nelle città e che abbiamo abbandonato e dimenticato la libertà del deserto, non abbiamo più il diritto di farci chiamare imazighen.
– Scusami, Azrur, non volevo…
– Non c’è niente di cui scusarsi, trierarca. Un proverbio degli imazighen dice che gli dèi hanno creato le terre ricche d’acqua perché gli uomini ci vivano, e hanno creato il deserto perché vi ritrovino la loro anima. Noi mazaci abbiamo scelto la comodità delle città, loro – e indicò gli uomini seduti intorno al fuoco – hanno scelto la libertà del deserto.


Nei giorni successivi le attività di caccia, macellazione e affumicatura continuarono spedite.
Arvind aveva scelto per la sua collezione alcune delle pelli più belle, ottenute da animali scuoiati con cura per mantenerle il più possibile intatte, zoccoli, corna e persino alcuni crani delle diverse specie che avevano cacciato.
La questione delle pelli aveva provocato qualche attrito: Arvind avrebbe voluto fermarsi al campo per il tempo necessario alla concia delle pelli dei suoi campioni, ma Dominico si era fermamente opposto all’idea. Per essiccare e conciare a dovere le pelli in modo da poterle trasportare nella stiva della Inceptio avrebbero dovuto prolungare la loro sosta di quasi un mese, e questo era impensabile.
Dopo una lunga discussione venne raggiunto un compromesso: le pelli scelte da Arvind sarebbero state essiccate insieme alle provviste di carne nell’affumicatoio costruito da Caledonio e poi, per le fasi successive del processo di concia, gli sarebbe stato assegnato uno spazio sul disco, anche se questo avrebbe creato qualche disagio per i cartografi e gli astrologi. La concia delle pelli non è esattamente un procedimento gradevole per quanto riguarda l’olfatto…
Le dozzine di pelli rimanenti vennero invece regalate agli imazighen, che non avrebbero avuto problemi a fermarsi in riva al fiume per il tempo necessari a trattarle; in ogni caso, stando a quanto aveva detto il capotribù Amedras, avevano comunque intenzione di restare lì per qualche tempo prima di riprendere il loro viaggio verso est.
Alla fine, tre giorni dopo l’arrivo della tribù nomade, tutto era pronto: la carne affumicata era stata tutta trasportata a bordo della nave e appesa a una fila interminabile di ganci sotto il castello di poppa; l’acquisto e il pagamento dei cereali e delle altre provviste era stato effettuato secondo gli accordi e romani e imazighen si erano congedati in maniera cordiale, tra scambi di doni e promesse di eterna amicizia.
All’alba del quarto giorno i milites smontarono il campo con l’efficienza che deriva da una lunga pratica e salirono a bordo della Inceptio, portando con sé le ultime attrezzature.
Finalmente la nave levò le ancore e cominciò a ridiscendere la corrente del grande fiume, per tornare verso Oceano.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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