Bioko, a.d. V Id. Sext. 874 AUC
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div class=”fr_diario”>Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
Sono ormai quindici giorni che siamo ospiti dei biabba, una delle tribù del popolo bubi che abita questa isola che loro chiamano Bioko.
Azrur ha dimostrato di saper fare il suo mestiere: in soli cinque giorni è riuscito a imparare a parlare abbastanza bene con gli indigeni da spiegare la nostra posizione, convincerli che non vogliamo attaccarli o conquistare la loro isola e ottenere il permesso per far sbarcare l’intero equipaggio.
I biabba si sono mostrati debitamente impressionati dalla consueta velocità ed efficienza con cui i nostri uomini hanno realizzato un accampamento completo, e ci hanno autorizzato ad abbattere un certo numero di alberi dalla foresta che costeggia la spiaggia.
Questi bubi sono un popolo strano: ciascuna tribù vive in un villaggio di un centinaio di capanne o poco più che non ha nessuna delle comodità a cui noi siamo abituati, le loro capanne sono spoglie, devono andare a prendere l’acqua al fiume con gli otri, non conoscono l’allevamento; però sembra che se la cavino benissimo ugualmente. Non conoscono il bronzo, ma hanno delle armi di ferro duro e resistente almeno quanto il nostro; non coltivano il frumento, ma macinano una radice che chiamano habe per produrre una farina quasi altrettanto buona.
La Inceptio li ha affascinati, ma di quello che abbiamo con noi una delle poche cose che li ha impressionati davvero è la qualità delle nostre stoviglie in terracotta. Ho donato a M’bala, il capo della tribù, una bella coppa rossa di Arretium con figure a rilievo che avevo con me e ne è stato entusiasta.
Ho poi scoperto casualmente che Aulo Cecina, un miles della seconda centuria, proviene da una famiglia di vasai di Arretium e ha lavorato come apprendista del padre prima di arruolarsi nelle legioni. L’ho quindi incaricato di insegnare quello che sa dei segreti del mestiere ai ceramisti locali: in pochi giorni hanno già ottenuto dei risultati notevoli, anche grazie all’aiuto di Caledonio che ha costruito per loro un tornio da vasaio molto più perfezionato dei modelli rudimentali che usano qui.
Per questa sera M’bala ci ha invitati a un banchetto al villaggio, io e “dieci dei guerrieri della mia scorta”, come ha tradotto Azrur. Penso che cercherò di stiracchiare un po’ la definizione di “guerriero” per includere nel gruppo oltre ad Azrur anche Gibil, Arvind e Tolomeo.
– Aktis, – chiese Dominico – come pensi che dovremmo presentarci al banchetto di stasera?
– In che senso, trierarca?
– Mi domando se dovremmo andare armati o disarmati. Se entriamo nel loro villaggio completamente armati potrebbe sembrare una sfida, un gesto di ostilità; d’altra parte se ci presentiamo disarmati potrebbero considerarla una forma di sottomissione.
– Temo di dover dire che non conosciamo abbastanza le loro consuetudini e la loro mentalità per valutare correttamente, – rispose Aktis dopo una breve riflessione – forse la scelta migliore sarebbe di adottare una via di mezzo.
– Una via di mezzo? Armati ma non molto? – Chiese Dominico ironico.
– Proprio così. Visto che ci hanno invitato ad andare in undici, propongo di comportarci in questo modo: tu sarai in armatura da parata, ma senza armi a parte il pugio, Azrur, Arvind e Tolomeo saranno naturalmente in abiti civili e disarmati, mentre io, Gibil e gli altri milites verremo armati di gladio e scutum ma senza pilum, armatura ed elmo. In questo modo daremo una corretta indicazione della gerarchia, senza che le nostre armi diano un’impressione eccessivamente aggressiva.
– Mi sembra ragionevole: dopotutto anche loro quando siamo arrivati si sono presentati con lancia e scudo anche se, naturalmente, erano sulla loro terra. Però con addosso elmo, lorica e paludamentum temo che morirò dal caldo prima della fine della serata.
– Penso che l’elmo e il mantello te li potrai togliere subito. – Lo rassicurò l’altro: – L’importante è fare la giusta impressione quando arriviamo. Vuoi che ci facciamo accompagnare anche dal cornicen e dal signifer?
– Per Hercules, no! – Esclamò Dominico: – Stiamo andando a un banchetto, non alla parata di un trionfo. E poi, ci hanno detto di andare in undici, non in tredici.
– Allora faremo così. – Concluse Aktis: – Mi occuperò io di spiegare la cosa agli altri centurioni in modo che sappiano come comportarsi.
Claudio Tolomeo e i suoi assistenti erano stati molto impegnati negli ultimi quindici giorni, o più precisamente nelle ultime quindici notti.
– Abbiamo davanti a noi un lavoro che potrebbe tenerci impegnati per anni, – stava spiegando al magister fabrum – la maggior parte delle costellazioni sono nuove e sconosciute.
– Non credo che il trierarca sarà d’accordo di fermarci su quest’isola per anni. – Commentò Caledonio ridendo.
– Certo che no, e non lo vorrei certo neanche io. E poi qui siamo troppo vicini alla linea aequinoctialis, le stelle più vicine al mozzo meridionale non sono ancora ben visibili. Ma se continuiamo a navigare verso sud, potremo osservare anche quelle; stiamo già cominciando a realizzare la prima mappa dei cieli australi.
– Non so per quanto potremo ancora andare avanti senza problemi, Tolomeo, – commentò l’ingegnere con aria preoccupata – ci stiamo avvicinando alla fine dell’estate e presto il mare diventerà troppo pericoloso per la navigazione. Temo che fra un paio di mesi al massimo dovremo trovare un posto dove fermarci per passare l’inverno.
– No, Caledonio, ti sbagli. – Rise Claudio Tolomeo: – Hai fatto caso che nell’ultimo mese le giornate non si sono accorciate, nonostante abbiamo già passato le Kalendae di Sextilis?
– Effettivamente sì, adesso che me lo fai notare devo dire che è abbastanza strano.
– No, è assolutamente naturale. Vedi, viaggiando verso sud ogni giorno che passa ci siamo avvicinati sempre più al cammino del sole, la linea lungo cui il sole viaggia ogni giorno attraversando le costellazioni dello zodiaco. Come ti dicevo prima, adesso siamo quasi arrivati alla linea aequinoctialis e quindi il sole adesso passa proprio sopra di noi. Qui non ci sono stagioni, il giorno la notte sono lunghi uguali per tutto l’anno.
– Ma noi non resteremo qui, – insistette l’altro – dicevi che dobbiamo andare ancora più a sud.
– È vero, ma questo migliorerà la nostra situazione. A sud della linea aequinoctialis le stagioni sono rovesciate, quindi stiamo andando verso la primavera e l’estate.
– Cioè stai cercando di dirmi che a sud il tempo va al contrario? – Chiese Caledonio in tono ironico: – Adesso mi dirai anche che se stiamo lì per degli anni ringiovaniremo invece di invecchiare.
– No, no, come faccio a spiegarmi… – Tolomeo fece una pausa per riordinare le idee: – Senti, tu sai che in estate fa più caldo perché i giorni sono più lunghi, mentre in inverno sono più corti, giusto?
– Certo, questo lo sanno tutti.
– Bene, se a Roma i giorni sono più lunghi nel mese di Iunius che in quello di December, è perché il sole si spinge più a nord e di conseguenza sta più a lungo sopra l’orizzonte e per meno tempo al di sotto. Noi adesso stiamo andando verso sud, oltre il cammino del sole e qui, quando il sole si spinge più a nord, resta visibile per un tempo minore.
– E quindi… – Chiese Caledonio ancora dubbioso.
– E quindi nei mesi d’estate, quando a Roma le giornate sono lunghe e le notti brevi, qui è il contrario e i giorni sono brevi e le notti lunghe. Di conseguenza, quando a Roma è estate, all’estremo sud è inverno e viceversa; o, se preferisci mantenere invariati i nomi delle stagioni, laggiù fa caldo in inverno e freddo in estate. Se andremo altre due o tremila miglia verso sud, dovremo aspettarci di vedere i fiori sbocciare in October e l’uva maturare in Martius.
– Ma sei sicuro di quello che stai dicendo? O mi stai prendendo in giro?
– No, sto parlando seriamente. E sono abbastanza sicuro di quello che ti ho detto, o per lo meno la maggioranza dei filosofi la pensa così. In realtà nessuno prima di noi ha mai visto di persona come stanno davvero le cose e quindi potrei anche sbagliarmi, ma non lo credo probabile.
– Allora ci fideremo della tua filosofia e pregheremo gli dèi che tu abbia ragione. In caso contrario, dovremo trovare presto un luogo dove passare l’inverno.
Il gruppo si mosse dall’accampamento circa un’ora prima del tramonto.
Dominico era abbigliato splendidamente con il paludamentum rosso carminio, l’elmo con un alto pennacchio di crini di cavallo, anch’essi tinti di rosso, e la lorica di bronzo lavorato a sbalzo; e come previsto scoppiava dal caldo nell’umidità afosa del tardo pomeriggio.
Subito dietro di lui venivano i civili: l’indispensabile interprete Azrur, il physiologo Arvind e l’astrologo Claudio Tolomeo, che era stato convinto con fatica ad abbandonare per una sera la sua dioptra e ad affidare le osservazioni ai suoi assistenti.
Chiudevano il corteo i tre centurioni, Aktis in testa, accompagnati dal gubernator Sobadako, dal magister fabrum Caledonio, dal medico Gibil e dall’optio Quinto Modio, tutti con il gladio allacciato al cingulum e con lo scutum a tracolla, ma senza elmo, lorica o pilum.
L’aspetto marziale dei legionari era un po’ rovinato dal fatto che trasportavano vari doni per i loro ospiti: un’anfora di vino della Gallia Narbonensis, un grande cratere di bronzo lavorato e alcune altre cose, tra cui un congio di olio d’oliva, una cassetta con circa una libra di sale macinato e una cesta di focacce; il farro per queste ultime era stato attinto dalle ultime scorte tenute per occasioni speciali o riti religiosi e venti milites avevano lavorato per buona parte del pomeriggio a macinare la farina e cuocerle.
La loro meta era a meno di mezzo miglio dall’accampamento e quindi arrivarono rapidamente al villaggio dei biabba, circondato da un’alta palizzata: circa centoventi capanne ben costruite, con le pareti di incannicciata e il tetto di fronde di palma, racchiudevano uno spiazzo circolare largo una quarantina di passi. In mezzo era stato allestito un grande focolare intorno al quale una quantità di donne erano già affaccendate a preparare la cena.
I romani vennero ricevuti da M’bala, il capo della tribù, affiancato da una guardia d’onore di sei guerrieri con lancia e scudo; Dominico non ne era certo ma gli sembrava che fossero gli stessi che li avevano accolti al loro arrivo sull’isola.
Nessuno dei biabba fece commenti sull’abbigliamento dei milites, e quindi Dominico decise che la scelta di presentarsi armati era stata corretta, o quantomeno accettabile. Dopo un adeguato numero di convenevoli, complicati dalla necessità di far tradurre tutto ad Azrur, Dominico si poté finalmente liberare del pesante mantello e dell’ingombrante elmo, non senza un sospiro di sollievo.
La cena procedette tranquillamente anche se il povero Azrur dovette lavorare in continuazione perché M’bala non la smetteva mai di chiacchierare.
– I vostri dèi vi hanno aiutato facendovi arrivare a Bioko proprio nelle terre della nostra tribù.
– Qui sull’isola ci sono molte altre tribù oltre alla vostra, M’bala? – Chiese Dominico.
– Almeno cinque volte cinque, – fu la risposta – ma nessuna è grande come la nostra o ha tante piante di habe. E poi quelli delle altre tribù non sono saggi come noi biabba, non vi avrebbero accolti bene.
– Mi sembra di capire – intervenne Aktis rivolto a Dominico – che a M’bala non stiano molto simpatici gli altri isolani. Che ci sia una guerra in atto?
– Speriamo di no. Azrur, prova a chiederlo con tatto al nostro amico qui.
Azrur e M’bala parlottarono per un po’ e poi l’interprete spiegò a Dominico: – Non sono sicuro di aver capito tutto quello che mi ha detto, ma pare che ci sia una diffusa ostilità tra le varie tribù dell’isola che, ogni tanto, sfocia in un conflitto. Da come me li ha descritti più che di guerre direi che si tratti di razzie per conquistare donne e bottino.
– Bene, finché saremo qui come loro ospiti dubito che qualche tribù avrà il coraggio di attaccarli. – Concluse Dominico rassicurato: – Piuttosto, M’bala, hai pensato alla nostra proposta di venderci un bel po’ di habe?
I romani non avevano mai visto qualcosa di simile alle radici di habe: grosso modo cilindriche, grosse uno o due palmi e lunghe tre o quattro piedi, arrivavano a pesare anche dieci o venti librae ciascuna. Da quello che dicevano i biabba, si conservavano bene, purché fossero intatte e tenute all’asciutto. La loro polpa, seccata e macinata, dava una farina piuttosto buona che in mancanza di frumento avrebbe potuto accontentare i milites.
– Dice che sì, hanno una grande quantità di habe nei loro horrea, – rispose Azrur – e possono vendercene quante ne vogliamo se abbiamo qualcosa da offrire in cambio. Ma dice anche che ne parleremo dopo mangiato.
Il banchetto risultò abbastanza gradevole anche se per i romani ogni singolo piatto era una novità: persino la carne arrostita era insaporita con erbe e spezie a loro sconosciute. La cucina locale risultò molto piccante, i biabba utilizzavano una varietà locale di pepe che non aveva niente da invidiare al pepe indiano e buona parte delle pietanze era a base di habe: focacce di farina di habe, una specie di minestrone di verdure e farina di habe, persino sottili fette di radice di habe fritte nell’olio di palma.
A loro volta M’bala e i suoi guerrieri apprezzarono molto il vino donato dai romani, allungato su suggerimento di Dominico con tre parti d’acqua nel cratere appositamente portato, e anche le focacce di farro insaporite con olio d’oliva e sale.
Durante la cena si parlò di un po’ di tutto, ad eccezione delle questioni commerciali che, come aveva fatto capire M’bala, erano un argomento da evitare durante un banchetto.
Dominico descrisse la grandezza di Roma, la città che dominava tutte le terre intorno al Mare Internum e parlò del viaggio della Inceptio, del fatto che non fosse una spedizione militare ma di esplorazione, per conoscere meglio il grande mondo al di là dei confini di Roma.
Arvind raccontò qualcosa dell’isola di Taprobane dov’era nato e delle magnifiche città dell’India che aveva visitato diverse volte, e di quello che aveva sentito raccontare della Seria, il grande paese ancora più a oriente.
M’bala narrò invece la storia delle tribù bubi, di come un tempo vivessero sul continente prima che un altro popolo venuto da nord avesse occupato le loro terre e li avesse resi schiavi. Fece un lungo racconto, che Azrur ebbe qualche difficoltà a seguire e ancora più a tradurre, di come la sua gente fosse fuggita dalla schiavitù e fosse giunta sull’isola di Bioko in un tempo così remoto che non ci sono abbastanza numeri per contare gli anni che erano passati da allora.
Finito il banchetto si passò a discutere di affari: i romani erano interessati a comprare tutte le radici di habe che i biabba fossero stati disposti a vendere, ma avrebbero voluto anche una certa quantità del pepe locale e di guoro, una specie di seme o di noce prodotto da un albero che cresceva sull’isola e che i locali masticavano per la sua proprietà di far passare la fame e la stanchezza.
Dopo lunghe contrattazioni si accordarono per cedere ai biabba dodici anfore di vino e cento braccia di tessuto di lino, un terzo della loro scorta nel caso si dovessero sostituire le vele della nave, e una dozzina di coppe di vetro, materiale completamente sconosciuto ai biabba. In cambio si accordarono per ricevere mille radici di habe, dieci librae di guoro e altre dieci di pepe.
Osservando i partecipanti alla cena, Dominico aveva notato la presenza di molti ornamenti in oro e pietre dure e, parlandone con M’bala, aveva scoperto che i biabba non erano particolarmente interessati al primo, mentre consideravano molto preziose le seconde: – M’bala, se siete in grado di procurarvi un bel po’ di oro, credo che ci possano essere le basi per iniziare un commercio interessante tra voi e Roma. Vedi, i romani considerano l’oro molto prezioso, quindi potrebbero vendervi un mucchio di oggetti utili in cambio di oro e, penso, anche di pepe e guoro.
Il capotribù ragionò un poco sull’affermazione e chiese a sua volta: – Dici che considerate l’oro prezioso, ma quanto? Tu non hai chiesto di comprare oro, ma habe e guoro; quindi l’oro è per te meno prezioso dell’habe?
– Nel mio caso sì, l’habe è più prezioso dell’oro perché l’oro non si mangia. – Rispose Dominico sorridendo: – Noi non siamo mercanti ma esploratori, e abbiamo davanti a noi ancora un lungo viaggio: per me è più importante avere cibo per il mio equipaggio, che oro da vendere quando torneremo a Roma. Se però pensi di poterti procurare abbastanza oro, sono sicuro che dopo che noi saremo tornati a Roma ci saranno mercanti disposti a venire fin qui con navi più grandi della nostra cariche di oggetti da vendervi.
– Ma cosa intendi per abbastanza oro? Quanto oro ci vorrebbe ad esempio per comprare le anfore di vino che ci hai appena venduto?
– Non molto, credo. Se quel bracciale che hai al polso è di oro puro, basterebbe probabilmente per comprarne venti volte venti.
– Penso che si possa fare. Conosciamo i posti dove l’oro si raccoglie nei fiumi: ci vuole tempo e pazienza ma, se quello che dici è vero, ne vale la pena. Quand’è che ci manderai i mercanti di cui parlavi?
Dominico si fermò un attimo a pensare. Voleva evitare a tutti i costi che un equivoco rovinasse in partenza i possibili rapporti con questa gente: – Azrur, cerca di spiegare bene a M’bala quello che sto per dire: non saremo noi a decidere se i mercanti verranno o meno o cosa porteranno con sé, noi possiamo solo raccontare quello che abbiamo visto e le cose di cui abbiamo parlato, poi saranno loro a decidere se venire.
Azrur e M’bala discussero tra loro per un bel po’ di tempo, prima che l’interprete confermasse: – Credo che abbia capito il concetto, trierarca. Vuole comunque sapere quanto tempo pensi che ci vorrà perché i mercanti arrivino, se arriveranno.
Dominico fece un paio di rapidi calcoli: nella migliore delle ipotesi ci avrebbero messo un altro anno ad arrivare al Sinus Arabicus e da qui il resoconto della prima parte della loro spedizione sarebbe arrivato a Roma nel giro di pochi mesi; a questo bisognava aggiungere il tempo necessario perché un qualche collegium mercatorum organizzasse una spedizione: armare una o più navi, acquistare le merci…: – Penso che i primi mercanti potrebbero essere qui non prima di tre anni da adesso, M’bala, forse anche quattro o cinque. Come ti ho detto non posso prometterti nulla, perché non sarò io a prendere queste decisioni, mi limito solo a prevedere quello che potrebbe succedere.
– Capisco, romano, – fu la risposta di M’bala – ti ringrazio per i consigli che hai dato a me e alla mia tribù. Sarò felice se le tue previsioni si riveleranno veritiere e non ti farò una colpa se questi mercanti non arriveranno.