Hyperborei
Finalmente, dopo due mesi di navigazione verso nord, alle Nonae di September la linea della costa gira verso oriente, per quanto possa essere ridicolo parlare di linea o di direzione quando ci si riferisce a una costa irregolare come questa.
Pochi giorni fa abbiamo fatto sosta in un grande villaggio sulla costa di un’isola pianeggiante lunga poco più di sei miglia; i locali allevano buoi e pecore e coltivano soprattutto orzo in quanto evidentemente l’isola è troppo a nord per far crescere il grano. Abbiamo acquistato senza difficoltà sia orzo che formaggi e pesce essiccato, che loro hanno in abbondanza, in cambio di ferro e bronzo di cui invece hanno estrema carenza.
È da circa una decina di giorni che l’equipaggio è gravemente turbato da una serie di incredibili prodigi che si ripetono quasi tutte le notti, ma sempre differenti, davanti alla prua della nave: fasci e lampi di luce, soprattutto verde, azzurra e violetta, spettrali figure luminose che compaiono nel cielo davanti a noi e poi fuggono quando la nave si avvicina. In un’occasione ho visto io stesso la forma di un’immensa mano fatta di luce azzurra levare il pugno verso di noi.
Gli uomini sostengono che il nostro viaggio è maledetto, che stiamo navigando verso le porte degli inferi e che quelle luci nel cielo sono sono gli spiriti dei defunti o i servitori di Ade che vengono ad accoglierci e ad attirarci verso la morte.
Devo ammettere che Clearco riesce a mantenere la disciplina in maniera ammirevole, considerato che nemmeno io riesco a considerare questi inspiegabili portenti in maniera obiettiva e imparziale. Ma come ha detto un saggio, ci sono più cose tra cielo e terra di quanto possa essere spiegato dalla filosofia.
Sono passati altri dieci giorni, e quelle spettrali apparizioni notturne hanno finalmente smesso di opprimerci, ma come ormai da tempo temevo la maledizione che perseguita questo viaggio si è fatalmente conclusa in un disastro.
È il sedicesimo giorno delle Kalendae di October e la Viatrix sta navigando verso sudest lungo una costa rocciosa disseminata di continue insenature. Da qualche tempo però queste si sono decisamente ridotte di dimensioni, anche se sono aumentate di numero, e ora solo le più grandi raggiungono il mezzo miglio di larghezza e due o tre miglia di lunghezza.
È un luogo pericoloso in quanto non osiamo allontanarci troppo dalla costa per paura di perderla di vista, ma nello stesso tempo queste imprevedibili scogliere costituiscono un grave rischio per la navigazione e Bithus, il nostro gubernator, è costretto a effettuare continue correzioni alla rotta per evitare gli scogli affioranti.
Succede tutto all’improvviso verso l’ora terza: mentre lo racconto mi sembra quasi che ogni singolo istante si dilati per diventare lungo come ore, ma nella realtà gli eventi non possono essere durati più di un quarto d’ora.
Otto milites della terza centuria, tra cui il centurione Marco Atilio, attraversano improvvisamente il ponte della nave diretti verso poppa e salgono la scaletta che porta al disco. Due di loro si fermano in cima alla rampa, bloccandola, mentre gli altri si dirigono verso la tenda del trierarca. Tutti e otto sono completamente armati.
Clearco si alza di scatto dalla sua sella e chiede infuriato il motivo di quella intrusione, i milites rispondono sguainando i pugiones: è un ammutinamento. Mentre il trierarca estrae il proprio gladio cercando di contrastare i sei assalitori, Quinto Flavio sta cercando di salire sul disco insieme ad alcuni dei suoi milites, nonostante la scala sia stretta e due ammutinati ne blocchino il passaggio. Flavio impugna il gladio, ma lo spazio angusto gli impedisce di usarlo a dovere: uno dei due difensori lo colpisce alla spalla con il pugio e l’altro riesce a spingerlo giù dalla scala, facendolo cadere sul ponte sottostante.
Mentre i rimanenti uomini di Quinto Flavio cercano inutilmente di sfondare il blocco, l’enorme Bithus abbandona il timone e si getta in aiuto del suo trierarca: riesce a prendere alle spalle due degli ammutinati e li stende entrambi facendo cozzare le teste tra loro. Il suo eroico tentativo di soccorso è però inutile: Clearco è già a terra con una lama piantata nel fianco.
Bithus si difende a mani nude dai quattro sicari armati: sembra quasi di vedere uno di quei guerrieri berserkiri che abbiamo affrontato tra i suiones, e riesce ad atterrarne altri due prima di essere colpito dalle lame dei rimanenti, mentre gli uomini della prima centuria riescono finalmente ad avere ragione di quelli che bloccavano l’accesso al disco.
Finalmente sembra che la ribellione sia domata: cinque degli ammutinati sono a terra e non si muovono mentre gli altri tre, compreso Marco Atilio, sono stati presi e disarmati; in quel momento un urto tremendo, il ponte scivola sotto i nostri piedi, rumore di legno spezzato, i remi che si schiantano, le urla e i gemiti di dolore dai remiges…
La Viatrix, priva di governo ora che Bithus è stato colpito, negli ultimi istanti cruciali ha sbandato verso destra e ha colpito in pieno la scogliera. Il fianco della nave è squarciato, i remi da quel lato spezzati, molti remiges uccisi, o gravemente feriti dai loro stessi remi che sfondano petti, spezzano braccia, rompono teste.
Poi, a parte i le urla e i gemiti dei feriti, cade il silenzio.
Mi avvicino al trierarca che è ancora a terra, mi aspetto di trovarlo morto ma gli occhi sono aperti e si sta guardando intorno. Dionyso, il medico, è chino su di lui a esaminare le ferite, ma basta vedere la sua espressione per capire che non c’è niente che lui possa fare.
Clearco lo allontana con un gesto e riesco a sentire quello che dice: – Stupidi barbari romani, per liberarvi di me avete distrutto la vostra stessa nave… avremmo potuto compiere un’impresa eroica che sarebbe stata ricordata in eterno… ora invece chi vi riporterà indietro alle vostre case? È così sciocco finire qui in questo modo… in questa terra sconosciuta e desolata lontano da tutto… Io ne ho viste di cose che voi romani non potreste mai immaginare… navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Korinthos… ho visto i dardi incendiari balenare nel buio vicino alle porte di Byzantion… e tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia…
Sono le sue ultime parole, e mi dispiace sinceramente per la sua morte in quanto era un comandante capace, anche se non posso evitare di riportare le parole che sentii sussurrare dietro di me da uno dei milites: – Un pomposo figlio di puttana fino all’ultimo.
Finita l’emergenza è il momento di valutare i danni.
Clearco è morto, Bithus anche. Quinto Flavio è ferito ma secondo Dionyso dovrebbe riuscire a cavarsela senza problemi, cinque degli ammutinati sono morti, mentre gli altri tre sono agli arresti, incatenati mani e piedi sotto il castello di poppa. Trentadue remiges sono rimasti uccisi nella collisione con la scogliera, con le teste fracassate dai remi, i toraci sfondati dall’impatto o annegati dopo essere caduti in mare; altri quarantacinque sono feriti, e probabilmente molti di loro non ce la faranno.
La Viatrix non navigherà mai più. Questo è stato il laconico verdetto del magister fabrum Caio Sertorio: a parte i danni ai remi e al timone, lo scafo è sfondato in almeno tre punti, al di là di ogni speranza di riparazione; persino il supporto alla base dell’albero di maestra è stato compromesso. L’unico aspetto positivo è che siamo incagliati sul fondale roccioso a poche braccia dalla costa: non affonderemo e con questa luna le maree sono minime, quindi abbiamo a disposizione un po’ di tempo per mettere in salvo noi stessi e le nostre scorte.
Il contenuto della stiva è abbastanza in buone condizioni: a parte qualche anfora che si è rotta nell’impatto, un mucchio di roba è a mollo nell’acqua salata, e quindi forse qualcosa andrà a male nei prossimi giorni prima che riusciamo a consumarla, ma nell’insieme la maggior parte delle provviste è recuperabile.
Il problema è che non abbiamo più nessuna speranza di salvarci: siamo naufraghi su una costa inospitale all’estremo nord del mondo, a non meno di duemila miglia dal più vicino avamposto romano, in una terra dove non si vede crescere un solo albero. E l’inverno sta arrivando.
Il comitium dell’equipaggio dura quasi tutta la giornata. Il principale problema da risolvere è di carattere legale: una cohors legionaria non può restare senza un ufficiale comandante e, con la morte di Clearco e di Bithus, i milites sono in una situazione ben poco chiara. In condizioni normali, un’unità che rimane senza comandante dovrebbe raggiungere in comando legionario più vicino e mettersi agli ordini del suo ufficiale; ma la legione più vicina si trova ad almeno duemila miglia da qui!
D’altra parte una cohors senza un comandante e senza disciplina non è niente di più che una banda di predoni armati. Dopo non poche discussioni viene raggiunto un accordo: Quinto Flavio assumerà il comando di quello che resta della cohors, dei marinai e di noi civili, nominalmente quale legato postumo di Clearco e con l’esplicito unico scopo di riportarci nei territori soggetti all’imperium di Roma. Non è ben chiaro se questa decisione sia legalmente valida ma, se riuscirà a riportarci indietro, avrà nel suo stesso successo la propria giustificazione, mentre in caso contrario saremo tutti morti e gli aspetti legali non avranno per noi più nessuna importanza.
È una ben misera cohors quella che l’ex pilus prior ha ereditato: circa centotrenta milites, di cui una ventina feriti, i ventisette marinai superstiti e una manciata di noi civili.
I primi ordini di Quinto Flavio sono ovvi e ragionevoli: allestire un castrum e cominciare a salvare il salvabile del contenuto della stiva della Viatrix, tenere sotto sorveglianza continua i tre ammutinati superstiti, Dionyso e i chirurghi devono occuparsi dei feriti. Domani, terminato il recupero di quanto si può salvare dal relitto, verrà convocato un secondo comitium per processare i prigionieri e decidere cosa fare per tornare a casa.
Il processo è ovviamente una pura formalità: l’ammutinamento, l’uccisione di Clearco e di Bithus, il ferimento di Quinto Flavio, il naufragio della Viatrix come diretta conseguenza delle loro azioni. Ciascuna di queste accuse sarebbe sufficiente, da sola, a rendere inevitabile la sentenza.
I tre condannati vengono legati per le braccia al palo, costituito dall’albero di mezzana della Viatrix solidamente piantato per terra, e bastonati col vitis da Caio Segimondo fino a quasi perdere i sensi, dato che la ferita impedisce a Flavio di assumersi questo compito.
Poi, uno alla volta, le corregge che li tengono per i polsi vengono sciolte e viene eseguita la sentenza di decollatio. I corpi vengono gettati in mare senza tante cerimonie.
Il comitium è invece una faccenda lunga e confusa. All’inizio la maggior parte dei milites vorrebbe cominciare immediatamente a marciare in direzione sud, verso Roma. Ci vuole buona parte della mattina perché Flavio riesca a convincerli che sarebbe una scelta folle: dovremmo percorrere più di duemila miglia, attraverso territori completamente sconosciuti e probabilmente ostili.
Nelle migliori condizioni questo richiederebbe circa tre mesi di marcia, il che significherebbe attraversare queste terre boreali nel pieno dell’inverno e le condizioni non sono certo delle migliori: non ci sono strade, non conosciamo i sentieri, non abbiamo guide e non abbiamo nemmeno cavalli per poter mandare avanti esploratori a cercare il percorso migliore. Nonostante le perdite subite non abbiamo abbastanza provviste per sfamare centocinquanta persone per tre mesi, razionando il cibo con cura potremmo forse arrivare al massimo a due e, comunque, non abbiamo carri, muli, o buoi per trasportarle.
Se partissimo adesso portando con noi tutto quello che riusciamo a caricarci addosso, saremmo fortunati se riuscissimo a percorrere un quinto della distanza che ci separa dalla Germania in quaranta giorni; dopo di che ci troveremmo nel pieno dell’inverno nordico, in mezzo a territori sconosciuti, senza più cibo né riparo. Sarebbe un suicidio puro e semplice.
Altri però sostengono, non senza motivi, che anche restare qui su queste terre desolate sarebbe un suicidio: come possiamo sperare di passare l’inverno con così poche provviste e nessun riparo? Almeno andando verso sud avremmo la possibilità di trovare qualche terra abitata, magari saccheggiare qualche villaggio.
La discussione continua per tutta la giornata, e alla fine prevale la posizione di Quinto Flavio: se cominciamo subito ad organizzarci ci rimangono probabilmente alcune settimane prima che cominci veramente il freddo invernale; dobbiamo sfruttare questo tempo per costruire ripari, raccogliere legna, procurarci cibo e forse, forse, riusciremo ad arrivare vivi a primavera per cominciare la lunga marcia verso sud.
Viene completato il castrum e la Viatrix viene dapprima svuotata di tutto il suo carico e poi letteralmente smontata pezzo per pezzo. Il magister fabrum Caio Sertorio dirige le operazioni: tutto il materiale riutilizzabile, dall’enorme rostro di bronzo da settecento librae fino all’ultimo chiodo di ferro o maniglia di bronzo, viene immagazzinato nell’officina dove verrà allestita la forgia.
Tutte le parti in legno, quasi ventimila librae, vengono smontate e accatastate in maniera tale da evitare che marciscano; i remi, le tavole e i rinforzi dello scafo potranno servire come materiale da costruzione, mentre il resto andrà bene come legna da ardere: in questa terra così povera di alberi, e in previsione di un inverno lungo e rigido, i poveri resti della Viatrix potranno costituire per noi la differenza tra la sopravvivenza e la morte per congelamento. Ma sicuramente non saranno sufficienti da soli.
Il carico viene esaminato, inventariato e suddiviso tra alimenti deperibili o danneggiati, da consumare il più in fretta possibile, e quelli che invece possono essere conservati per l’inverno; particolare cura viene posta nel separare dagli altri i sacchi di grano e orzo e i pezzi di carne affumicata e pesce essiccato che non sono stati toccati dall’acqua durante il naufragio, e che in questo clima freddo possono ragionevolmente conservarsi per mesi.
Le due scialuppe sono rimaste fortunatamente intatte: queste, e le reti della nave, potrebbero rappresentare la nostra unica speranza di sopravvivenza; la pesca in queste acque dovrebbe essere buona. Vengono portate a terra e trainate a braccia a molti passi dalla riva, capovolte e ancorate a dei picchetti, in modo che non corrano il rischio di essere trascinate in mare dall’alta marea o dalle onde in caso di tempesta.
E così siamo qui, non più navigatori ed esploratori ma naufraghi: centocinquanta romani a più di tremila miglia da Roma, a cercare di sopravvivere a un inverno che si preannuncia il più lungo e il più freddo che ciascuno di noi abbia mai sperimentato.
La statua di legno della tutela ci guarda con gli occhi insondabili di Hermes, come a chiederci per quanto tempo pensiamo di poter continuare a sfidare le Moire; durante la notte, nonostante siamo solo alla metà di September, è già caduta la prima neve.
È il quinto giorno dopo il naufragio, e Quinto Flavio ha mandato in mare due squadre di nove uomini ciascuna, con le scialuppe e le reti, a cercare di procurare del pesce. Se la pesca sarà fortunata cercheremo di conservarlo come abbiamo visto fare ai goutai, essiccandolo al vento sopra dei supporti di legno. Per avere qualche speranza di arrivare tutti vivi a vedere la primavera abbiamo calcolato che dovremmo triplicare le nostre scorte di cibo, e la pesca sembra al momento la risorsa più accessibile.
Sto finendo di registrare le osservazioni della notte scorsa, le apparizioni di luci colorate nel cielo si sono diradate e affievolite negli ultimi giorni e quindi siamo riusciti a misurare con buona precisione l’altezza di Polos e Cynosura. Abbiamo ripetuto le osservazioni tre volte perché non volevamo credere al risultato: sembra che siamo arrivati a più di settanta gradi dalla linea aequinoctialis!
Mentre poco lontano da me una squadra guidata da Caio Sertorio sta costruendo una struttura di tavole e remi che dovrà servire ad essiccare il pesce e un’altra sta cominciando a costruire delle baracche utilizzando il tavolato e le vele della nave, noto un certo trambusto alla Porta Principalis Dextera.
Un gruppo di milites, richiamati dalle sentinelle di guardia sull’agger, sta guardando verso oriente; mi avvicino incuriosito e scruto anch’io l’orizzonte: in lontananza, forse a una distanza di un miglio, ma in questa pianura spoglia è difficile valutare bene, è comparso un grande branco di animali che assomigliano a dei cervi.
Sono tanti, forse un centinaio o più! Questo è strano, perché non pensavo che i cervi si muovessero in branchi così numerosi, ma non bisogna lamentarsi della buona sorte: abbiamo un disperato bisogno di carne e quindi queste bestie sono davvero un dono degli dèi.
Viene rapidamente organizzata una spedizione di caccia, ottanta milites della seconda e terza centuria comandati da Caio Segimondo partono rapidamente e silenziosamente armati di pila e gladia, ma senza elmi e scuta per potersi muovere più rapidamente. Li vediamo allontanarsi verso oriente, spostandosi leggermente verso sud in modo da intrappolare il branco con il mare alle spalle.
Pian piano la centuria si riduce a una macchiolina confusa e poi scompare, probabilmente in un avvallamento del terreno. Aspettiamo fiduciosi di vedere i superstiti del branco sfuggire all’imboscata disperdendosi nella pianura, ma non succede niente del genere.
Dopo più di un’ora dalla partenza della squadra Quinto Flavio sta organizzando un gruppo di volontari per andare a vedere cosa è successo quando finalmente vediamo in lontananza i nostri compagni che stanno tornando verso il castrum. Quando sono più vicini vediamo che marciano in formazione regolare e sembra che non abbiano subito perdite, ma non hanno con sé neanche una preda.
Dobbiamo aspettare il loro ritorno, e il resoconto del loro centurione, per sapere cos’è successo e perché hanno rinunciato alla caccia.
– Allora Caio Segimondo, perché non avete dato la caccia a quel branco di cervi? – Il tono di Quinto Flavio è brusco come suo solito: – E com’è che ci avete messo tanto tempo a tornare indietro? Stavo già cominciando ad organizzare una spedizione di soccorso.
– È semplice, pilus prior, quando ci siamo avvicinati abbiamo visto che c’eravamo sbagliati: quello non è un branco, ma una mandria.
– Una mandria? Vuoi dire che…
– Sì, non sono animali selvatici. Si tratta di una mandria, guidata da dei pastori di cervi; un’intera tribù, credo che ci siano almeno settanta o ottanta persone.
– D’accordo, raccontami tutto.
Caio Segimondo e la sua centuria si erano avvicinati fino a un centinaio di passi dal branco di cervi e stavano cominciando ad allargare lo schieramento per circondarli, quando avevano notato i pastori. Diverse decine di persone, uomini e donne, giovani e vecchi, sorvegliavano la mandria che brucava la bassa e rada erba della piana e ne guidavano la lenta avanzata.
Segimondo si era avvicinato con uno dei suoi milites e aveva cercato di parlare con alcuni dei pastori: la loro lingua gli era risultata del tutto incomprensibile ma, dopo molti tentativi, erano riusciti a scambiarsi qualche frase utilizzando la lingua dei goutai che, apparentemente, i pastori hyperborei parlavano persino peggio del centurione stesso.
Comunque in qualche modo erano riusciti a capirsi, forse.
Secondo Caio i pastori avevano detto che stavano avanzando nella loro direzione, cioè verso il castrum, perché lì l’erba era migliore per i boazu (i cervi?) e che se li aspettavano avrebbero detto al noaidi (il loro capo? il padrone della mandria?) che degli stranieri volevano parlargli.
Caio aveva cercato di spiegare loro che li avrebbero aspettati laggiù nella “grande casa”, indicando il castrum e che sarebbero stati lieti di parlare con il noaidi quando fossero arrivati. Dopo di che era tornato indietro con la sua squadra.
La notizia risollevò il morale dei naufraghi, e tutti quelli che non avevano impegni più urgenti si misero a scrutare l’avanzata della mandria da oriente. Naturalmente la presenza di questi pastori hyperborei cambiava tutto: se nelle vicinanze c’erano dei villaggi, le nostre possibilità di superare l’inverno incipiente aumentavano notevolmente.
Da lì a poco, con l’arrivo dei pastori, avremmo scoperto che le cose stavano molto diversamente.