Un lungo viaggio – La città sul mare – Il potere del commercio
Myos Hormos, a.d. V Non. Iul. 801 AUC
Il viaggio era stato lungo e faticoso, ma Lydia era troppo eccitata per essere stanca: a quattordici anni appena compiuti, questa era la prima volta che lasciava Roma.
E non si trattava di un viaggio da poco! Una giornata di viaggio da Roma al porto di Ostia in un carro coperto, insieme a suo padre e con un carico di merci; poi l’imbarco sulla grande nave da trasporto, e diciotto giorni di viaggio sul ponte della nave, con una tenda come unico riparo, fino ad Alexandria in Egitto.
La sera dell’ultimo giorno di viaggio aveva visto una stella brillare per qualche istante proprio davanti alla prua della loro nave, bassa sull’orizzonte. Poi era scomparsa, forse nascosta da una nuvola, per poi riapparire, di nuovo solo per un attimo, proprio quando lei pensava che non si sarebbe fatta più vedere. E continuò così per un pezzo, a lampeggiare brevemente e poi scomparire, con una regolarità tale che Lydia andò a chiamare suo padre per farsi spiegare questo strano fenomeno.
– È la torre dell’isola di Faro, all’ingresso del porto di Alexandria. – Le rispose Lucio Mamilio appena vide la luce lontana: – Vuole dire che siamo quasi arrivati, mancano solo venticinque miglia.
– Mi stai prendendo in giro, padre? – Lydia si offese a quella risposta che le sembrava insensata: – Non è possibile che una torre sia visibile a una distanza del genere!
– Per niente. La cima della torre con la statua del dio Poseidon è alta quattrocento piedi e proprio sotto i piedi della statua si trova la camera del fuoco, dove tutte le notti viene accesa una grande lampada la cui luce viene proiettata lontano da uno specchio speciale, che si dice sia stato realizzato dal grande Archimedes. La vedrai tu stessa domani, quando entreremo nel porto.
Se il porto di Ostia era sembrato grande a Lydia, quello di Alexandria era immenso: diviso in due dal lunghissimo Heptastadion che collegava l’isola di Faro alla terraferma, con decine e decine di navi ormeggiate ai moli, in arrivo e in partenza a ogni ora del giorno.
Si erano fermati ad Alexandria solo un paio di giorni, mentre suo padre trattava alcuni affari con il suo agente locale, ed erano poi ripartiti risalendo in barca a vela il fiume Nilo.
Fiume, ah! In alcuni punti era così largo da non riuscire a vedere la sponda opposta, neanche stando in piedi sulla prua rialzata della barca. – Se questo è un fiume, – pensava Lydia – allora il grande Padre Tevere è solo un ruscello. E pensare che gli egiziani dicono che adesso è nella stagione secca, figuriamoci quando è in piena!
Avevano risalito il fiume per sedici giorni fino a Koptos, più di cinquecento miglia nell’interno, facendo diverse soste per sgranchire le gambe a terra. Lydia era stata colpita in particolare da Memphis, l’antichissima capitale dell’Alto e del Basso Egitto, con i suoi templi e monumenti che facevano sembrare minuscola e insignificante qualunque cosa avesse visto finora: abituata a pensare a Roma come la più grande e ricca città del mondo, faceva uno strano effetto vedere tale sfoggio di ricchezza e potere in una città di provincia, una città che non era nemmeno la più grande del paese. Cominciava a capire perché l’Egitto era considerato di gran lunga la provincia più importante per Roma; in Egitto tutto era immenso.
A Koptos si erano aggregati a una carovana di muli e cammelli, diretta a Myos Hormos sulla costa del Mar Rosso. In sei tappe avevano percorso circa centoventi miglia attraversando il deserto, viaggiando da sera a mattina ed evitando le ore più calde della giornata sostando a riposare durante il giorno nelle mansiones costruite a intervalli regolari, ciascuna con la sua cisterna per l’acqua.
Dopo le meraviglie di Alexandria e di Memphis la vista di Myos Hormos fu per Lydia un po’ una delusione: il porto era grande, anche se più piccolo del porto di Ostia, ma sporco, puzzolente e pieno di confusione.
La città vera e propria, arrampicata sui colli, era ai suoi occhi poco più che un villaggio, con le sue case imbiancate a calce e i tetti piatti. Guardando questa cittadina anonima, simile a tante altre lungo le coste dell’Egitto o delle isole greche, Lydia stentava a credere alle parole di suo padre, che le aveva detto che questo era uno dei porti più importanti per il commercio con l’India e che da qui partivano e arrivavano ogni anno circa centocinquanta navi cariche di merci preziose.
Tutto era cominciato tre mesi prima, il giorno del suo quattordicesimo compleanno.
Lydia era stata allevata ed educata in una maniera non proprio convenzionale per una giovane romana: parlava correntemente il greco, oltre ovviamente al latino, e aveva una conoscenza più che superficiale di siriaco e persiano. Già da qualche anno suo padre Lucio la teneva al corrente delle proprie attività commerciali, degli affari di quella che ormai entrambi consideravano l’azienda di famiglia.
La moglie di Lucio Mamilio era morta dando alla luce la sua prima e unica figlia, e lui aveva riversato su quest’ultima tutte le ambizioni e le speranze di un ex schiavo diventato ricco mercante; ambizioni che, in altre circostanze, avrebbe probabilmente riservato a un figlio maschio.
Quando aveva compiuto quattordici anni, suo padre le aveva fatto un lungo discorso sul fatto che ormai era una donna e che avrebbe dovuto cominciare ad assumersi delle responsabilità nella conduzione degli affari e quindi, come un fulmine a ciel sereno, le aveva detto che alle Idus di Maius sarebbero partiti insieme per l’Egitto, dove avrebbe avuto occasione di farle conoscere il suo socio in affari Hiram.
E così, dopo un viaggio di un mese e mezzo, erano arrivati a Myos Hormos e si erano recati a casa di Hiram, una bella e ampia domus in stile romano a poca distanza dal foro, dove avrebbero alloggiato per i quindici o venti giorni previsti per la loro permanenza. Al momento lei, Lucio e Hiram si trovavano nel grande tablinium della domus, così grande che più che studio sarebbe stato appropriato chiamarlo salone.
Hiram e suo padre stavano discutendo dei prezzi delle merci indiane e dei costi e rischi connessi al trasporto dai lontani porti di Taprobane, ma Lydia faceva fatica a concentrarsi su quanto stavano dicendo in quanto era continuamente distratta dal magnifico mosaico che copriva l’intero pavimento. Al centro, in una grande figura con animali favolosi, Lydia poteva riconoscere dalle descrizioni che aveva letto una coppia di leoni, un toro e un elefante. Ma cos’era quella bestia con il collo lunghissimo? E quell’altra con le corna sul naso? Intorno a questo quadro centrale erano disposte due dozzine di altri riquadri e triangoli più piccoli, ciascuno con la rappresentazione di un animale o di un pesce, tutti diversi tra loro ed estremamente realistici. Alle due estremità della sala il mosaico era completato da due grandi pannelli. Quello di destra raffigurava un’altra dozzina di scene di animali, spesso in lotta a due a due; in quello di sinistra si vedevano due grandi navi, perfette in tutti i dettagli, in mezzo a un mare pieno di pesci e serpenti marini.
– … e il prezzo della seta grezza è aumentato di nuovo anche quest’anno. – Stava dicendo Hiram: – Se continua così, con il costo del trasporto e le perdite di navi dovute ai pirati e alle tempeste, rischiamo di non essere più competitivi nei confronti delle importazioni dalla Parthia.
Lydia si riscosse un’altra volta dalle sue fantasie: – Ma per quale ragione dobbiamo importare la seta dall’India, se il trasporto è così costoso? Non sarebbe più conveniente per Roma produrla da sé?
– Eh, magari fosse così facile… – Hiram riusciva a non essere condiscendente parlando con lei, nonostante la sua giovane età, e di questo Lydia era molto orgogliosa: – Della produzione della seta sappiamo molto poco. Si dice che venga filata a partire da certi bozzoli bianchi che crescono sulle foglie di un albero chiamato gelso, altri dicono dalle foglie stesse dell’albero. Ma quando in Tracia hanno cercato di coltivare questa pianta non si è visto traccia di questi bozzoli, e dalle foglie non è stato possibile ricavare niente di buono.
– Non è possibile che il motivo del fallimento di questi tentativi sia dovuto al fatto che il clima o il terreno non fossero adatti? – Chiese ancora Lydia che aveva letto il De Agri Bultura di Catone e quindi si sentiva competente a discutere l’argomento: – Non si dovrebbe provare a piantarli in terreni e climi diversi per cercare quelli migliori?
– Non mi sembra una cattiva idea, – commentò suo padre – anche se non mi aspetto che sia facile riuscire dove tanti altri hanno fallito, potremmo provare. Hiram, pensi che potresti chiedere ai nostri agenti a Taprobane di procurarci delle piantine di gelso? Possiamo fidarci del fatto che ci vendano la pianta giusta?
– Forse sì, – rispose Hiram – se paghiamo abbastanza penso che ce le possano procurare. Quanto al rischio di farci imbrogliare, come sai, esiste sempre; però i gelsi sono già stati descritti da diversi autori e quindi non potranno rifilarci i primi alberelli che capitano.
– Bene allora, faremo così. Se e quando riuscirai ad avere questi alberi, diciamo una mezza dozzina, fammeli recapitare a Roma che penserò poi io a farli mettere a dimora nei terreni intorno alla nostra villa rustica in Etruria.
Lydia si era di nuovo distratta guardando il mosaico del pavimento: – Ma esiste davvero un animale del genere? – chiese, indicando il quadrato centrale.
– Sì, esiste. Lo chiamano rinoceronte perché ha le corna sul naso, ed è una belva enorme. – Spiegò Hiram: – Pare che viva nelle praterie a sud della Nubia e che sia estremamente aggressivo. Alto quanto un uomo, carica senza preavviso o provocazione, e con quei corni può infilzare persino un uomo che indossi una lorica hamata. Inoltre dicono che abbia la pelle così robusta che non è possibile ucciderlo né con il gladio né con il pilum, e che quando carica possa battere il più veloce dei cavalli.
– Che belva spaventosa! Spero proprio di non doverne mai incontrare una.
– Non credo proprio che ti capiterà, a meno che tu non decida di attraversare i deserti del sud o andare fino in India, dove si dice che esistano bestie come questa. – Rise suo padre.
– Tornando al discorso di prima, volevo farvi vedere un’altra cosa. Si tratta, – intervenne di nuovo Hiram, estraendo un oggetto piatto e rettangolare da uno stipo – di un dipinto proveniente anche lui dalla Seria; il nostro agente a Taprobane ce l’ha inviato come campione per sapere se ci può essere mercato a Roma per questo genere di oggetti d’arte.
Padre e figlia osservarono a lungo il quadretto. Sullo sfondo di un paesaggio appena abbozzato si vedevano figure umane abbigliate in maniera alquanto curiosa, con in mano strumenti per la maggior parte incomprensibili. Qua e là, apparentemente a caso, erano sparsi degli strani scarabocchi in inchiostro nero. L’insieme non era sgradevole ma si trattava evidentemente di una forma d’arte del tutto estranea alla loro mentalità.
– No, non credo proprio che potremmo vendere a Roma cose come questa, – rispose Lucio ridendo – non corrisponde assolutamente a nessuno dei canoni artistici correnti e dubito che potremmo lanciarla come nuova moda.
– Però c’è qualcosa di strano in questo dipinto. – Intervenne Lydia: – Non tanto nel soggetto, quanto nel materiale su cui è rappresentato: è troppo fino per essere papiro, ed è più leggero e sottile della pergamena della migliore qualità; però non sembra che sia seta o qualche altro tipo di tessuto. Sai per caso di che cosa si tratta Hiram?
– Ah, beh, so che i mercanti dicono che i Seres lo chiamano scinzi, o qualcosa del genere. Non ho idea di come venga prodotto e a partire da quali materiali…
– Comunque è molto bello; penso che il materiale in sé potrebbe essere interessante, soprattutto se fosse più economico del papiro e della pergamena. Pensi di poter ottenere informazioni su come si produce?
– Può darsi. – Rispose Hiram dubbioso: – Che dici Mamilio, vuoi che diamo incarico ai nostri agenti di raccogliere informazioni sull’argomento? Potrebbe volerci anche un po’ di tempo, e probabilmente una discreta somma se dovesse essere necessario corrompere qualcuno.
– Beh, Hiram, considerando che questa potrebbe essere la prima impresa commerciale direttamente basata su un’idea di Lydia, direi che ne vale comunque la pena. Puoi mettere le spese relative in carico a noi soli, se preferisci non imbarcarti nell’impresa…
– Allora siamo d’accordo. – Hiram sembrava sollevato: – Fino a che cifra siete disposti a spendere per avere queste informazioni?
– Diciamo un paio di centinaia di sesterzi per informazioni generiche che ci permettano di valutare se l’affare è conveniente e fino a cinquemila per informazioni sufficienti per impiantare una produzione? – Rispose Lucio dopo averci pensato un po’ su. – Naturalmente, prima di pagare una cifra simile, vorremo delle garanzie sul fatto che il prodotto finito sia sufficientemente più economico della pergamena da giustificare l’investimento.
– Benissimo. E tu Lydia, vedo che continui a guardare il mio mosaico: ti piace? – Con un gesto spaziò per l’intero pavimento, come a racchiudere il grande mosaico. – L’ho fatto realizzare tre anni fa al ritorno delle mie due navi che puoi vedere laggiù. Quelle navi facevano parte di una flottiglia di una dozzina di mercantili di ritorno dall’India, quando sono incappate in una tempesta al largo di Eudaemon. Le mie due navi sono state le uniche superstiti e quindi ho dedicato questo mosaico come ringraziamento a Poseidon, lo puoi vedere con il tridente in mano sul ponte della nave al centro, per aver salvato i miei uomini e il mio carico.
– Pensi veramente – gli chiese Lydia ironicamente – che il grande dio Poseidon si preoccupi della salvezza delle navi di un mercante?
Lucio Mamilio era sbigottito dall’impudenza e dall’empietà di una simile osservazione, ma Hiram le rispose ridendo: – Certo che sì! Non lo sai che le navi di noi mercanti sono uno dei pilastri su cui si regge la Repubblica?
– Pensavo che fossero le legioni a reggere Roma…
– No, le legioni possono conquistare una provincia, o difenderla dagli attacchi esterni, ma se non fosse per i mercanti i cittadini di Roma dovrebbero accontentarsi del grano e delle pecore della valle del Tevere. – Sogghignò: – Non vedrai mai i soldati occuparsi di portare il grano da Alexandria ad Ostia o il vino e il garum dall’Hispania alle tavole dei patrizi e degli equites romani. Senza il commercio le province sarebbero solo un peso inutile; invece, grazie a noi mercanti, sono la maggior fonte di ricchezza della Repubblica.
– Vuoi forse dire che sono i mercanti a far funzionare lo Stato?
– Non proprio. – Adesso Hiram era più serio: – Diciamo che i mercanti rappresentano una delle gambe del tripode dello Stato: le legioni ne garantiscono la sicurezza, i magistrati l’uguaglianza di diritti tra i cittadini e i mercanti la prosperità. Se anche solo una di queste gambe dovesse cedere, l’intera Repubblica ne soffrirebbe.
– E chi impedisce ai mercanti… a noi mercanti, di abusare di questo potere? Cosa ci impedirebbe di sfruttare il sistema imponendo i prezzi che vogliamo, arricchendoci smodatamente?
– Lydia non prenderci in giro, – la interruppe suo padre – se ci pensi per un secondo la risposta la conosci già: noi stessi. Se un mercante diviene troppo avido e aumenta eccessivamente il quadagno che ricava dalla vendita delle sue merci, ce ne sono dieci pronti a fargli concorrenza al ribasso, finché il prezzo non torna a un livello equo. Se i Parthi ci fanno pagare troppo cara la seta proveniente dalla Seria, noi ce la andiamo a prendere in India; se la seta importata da noi diventa troppo cara, Roma la comprerà tutta dalla Parthia. Così il prezzo della seta si regola da solo sul livello più basso che sia noi che i Parthi siamo disposti ad applicare: se scendesse di più, uno di noi smetterebbe di venderla e l’altro aumenterebbe di conseguenza i prezzi; se salisse troppo uno di noi abbasserebbe i prezzi per portar via il mercato all’altro.
– Quindi il sistema funziona da solo senza nessuno che lo lo regoli, come se fosse controllato da una mano invisibile. – Ragionò Lydia: – Ma cosa succederebbe se ci fosse solo un mercante in grado di procurare una certa merce? In questo caso potrebbe imporre i prezzi che vuole.
– In teoria sì ma non mi risulta che sia mai successa una cosa del genere, almeno non per un periodo di tempo considerevole. A volte capita che un mercante apra un nuovo commercio, e in qualche caso può conservare per qualche mese o per pochi anni il controllo esclusivo su un prodotto e arricchirsi di conseguenza. Ma prima o poi qualcuno riesce sempre a trovare una fonte alternativa e allora il meccanismo della concorrenza riparte.
– Amici, – li interruppe a questo punto Hiram – credo che sia ora di prepararci per la cena. Riprenderemo il discorso domattina.
Nel tardo autunno dell’anno successivo Lucio e Lydia ricevettero a Roma una spedizione dall’Egitto contenente tra l’altro sei alberelli di gelso, in buone condizioni nonostante il lunghissimo viaggio. Vennero subito inviati alla villa per essere trapiantati e crebbero rigogliosi, ma sulle loro foglie non spuntarono mai i bozzoli della seta.
Del misterioso scinzi, invece, non si seppe nulla.