Capitolo 13


Samonios – Adiega – Il nuovo fuoco

Villa dei Biraxi, Prid. Kal. Nov. 872 AUC

Annia Vera era arrivata alla villa dei Biraxi all’ora nona. Per una volta sarebbe stata una visita di piacere e non una giornata di lezioni: tutti i suoi allievi erano impegnati nei preparativi della festa.
Stasera, al tramonto, sarebbe cominciata la festa di Samonios, la fine dell’estate, e Vera era stata invitata dai Biraxi a trascorrere la notte e la mattina successiva con loro; lei aveva accettato con piacere anche perché in città, ad Arelate, la festa non veniva più celebrata quasi da nessuno. Qui in campagna, invece, la gente era ancora legata a tradizioni antiche, precedenti all’arrivo dei romani in Gallia.
Gli uomini stavano già macellando le pecore e i giovani arieti per sfoltire i greggi in vista dell’inverno: con la chiusura dei pascoli il numero di capi che si potevano mantenere dipendeva dalla quantità di fieno immagazzinata durante l’estate. La maggior parte della carne sarebbe stata conservata, salata o affumicata, diventando una risorsa preziosa per i lunghi mesi freddi; il rimanente sarebbe stato cotto e mangiato nel grande banchetto della notte stessa.
Due ragazzi stavano lavando e spazzolando il vello del grande ariete che al tramonto sarebbe stato incoronato di foglie di quercia e sacrificato a Cernumnos, come ringraziamento per l’abbondanza e la salute delle greggi.
I più giovani erano invece sulle colline ad allestire i grandi falò che avrebbero illuminato la notte: la notte del trapasso dalla luce alle tenebre, la notte in cui la barriera che separa il mondo della luce e dei vivi dal mondo della tenebra e dei morti si assottigliava al punto che qualcosa poteva passare da una parte all’altra.
Durante questa notte coloro che avevano il dono potevano comunicare con gli spiriti dei defunti, era un tempo adatto per la profezia. Ma era anche la notte in cui gli spiriti più forti e più inquieti potevano entrare nel mondo dei vivi, ed era quindi anche un momento di grande pericolo.
Annia Vera era nelle cucine della villa ad aiutare nei preparativi per la serata: c’erano pani da cuocere, verdure da pulire e tagliare, pentole di condimenti che già stavano bollendo sul fuoco e richiedevano cure. Mentre stava appunto mescolando il contenuto di un pentolone, le si avvicinò la figlia del vilicus, un po’ esitante, con l’atteggiamento di chi non sa se è lecito ricordare una promessa: – Magistra, hai per caso portato con te il libro di cui mi avevi parlato?
– Naturalmente, Adiega, te lo avevo promesso. – Vera indicò alla ragazza un codex che aveva appoggiato sul ripiano della madia del pane: – Sono i primi quattro libri degli Elementa di Eukleides; io e te siamo fortunate a poterli leggere, perché sono stati tradotti in latino dal greco solo pochi anni fa.
E poi, vedendo Adiega che cominciava subito impaziente a sfogliare il codex, aggiunse: – Adesso però dobbiamo occuparci della festa; mettilo via e comincia a studiarlo con calma nei prossimi giorni. Ricordati che non è un libro facile: comincia a leggere dall’inizio, procedi lentamente e cerca di capire bene quello che leggi, altrimenti non riuscirai a comprendere il senso di quello che viene dopo.
– Non capisco, magistra, – si lamentò Adiega – perché non posso leggere subito le parti che mi interessano di più?
– Perché il grande Eukleides ha scritto gli Elementa nello stesso modo con cui si costruisce una casa: prima getti le fondamenta, poi costruisci i muri e poi, solo alla fine, puoi posare il tetto. Ogni capitolo di ciascuno dei libri aggiunge qualcosa a quello che è già stato stabilito nei capitoli precedenti, leggere cominciando da metà sarebbe come cercare di costruire il tetto di una casa che non ha ancora le fondamenta.
– Capisco. – Rispose la giovane, con un tono che lasciava intuire che in realtà non capiva affatto, ma che avrebbe seguito le istruzioni della sua magistra.
– Bene, e se c’è qualcosa che non comprendi chiaramente, fermati lì e parlamene che cercheremo di approfondirlo insieme. E adesso, – aggiunse, passandole il lungo manico del mestolo – che ne diresti di prendere il mio posto a mescolare questo sugo? A fare sempre lo stesso movimento comincia a farmi male il braccio.


Il sole stava tramontando dietro le colline, nella villa e intorno ad essa tutti i fuochi erano stati spenti. Il pater familias dei Biraxi stava già lavorando con l’arco, l’asta e la tavoletta per accendere il nuovo fuoco. Era una tradizione antica: la sera della vigilia di Samonios tutti i fuochi vecchi dovevano morire e il nuovo fuoco doveva essere ottenuto sfregando tra loro i legni rituali, ricavati dai rami di un nocciolo, di un frassino e di una betulla. Doveva essere un fuoco vivo, che avrebbe portato fortuna e prosperità per tutto il nuovo anno.
Finalmente dalla tacca in cui girava la punta dell’asticella cominciò a salire un filo di fumo e poi, aiutata dall’aggiunta di funghi tritati e muschio secchi, si sviluppò una piccola fiammella.
Questa venne curata e fatta crescere, fino ad essere sufficientemente forte per accendere un ramoscello che venne portato al falò già pronto al centro della corte, e che a sua volta divampò prontamente.
Il nuovo fuoco era nato.
Appena il falò ebbe acquistato sufficiente vigore, venne portato l’ariete preparato per il sacrificio. L’animale venne abbattuto, scuoiato e macellato: la pelle, le interiora, parte del grasso e le ossa furono bruciate in offerta a Cernumnos, mentre la carne fu arrostita, separatamente da quella che era già stata cotta nelle cucine, e distribuita a tutti i presenti: uomini, donne, bambini e schiavi, tutti dovevano riceverne almeno un pezzetto e partecipare così della protezione del dio.
Terminato il sacrificio, vennero presi dal grande fuoco dei tizzoni per accendere gli altri quattro falò che erano stati preparati a una certa distanza intorno alla villa in corrispondenza dei punti cardinali, e altri per riaccendere i fuochi delle cucine.
Annia Vera aveva partecipato a questo rito con sensazioni miste: per lei, nata in città, tutto questo riusciva nuovo. Ad Arelate queste tradizioni stavano sparendo, sostituite dai nuovi dei e dai nuovi riti portati da Roma; del sacrificio a Cernumnos e dei riti che accompagnavano le grandi festività, soprattutto Samonios alla fine dell’estate e Glamonios alla fine dell’inverno, sapeva qualcosa solo dalle storie raccontate da sua madre e dalle vecchie.
Mentre gli altri giovani eseguivano le danze rituali, travestiti da spiriti e folletti, Vera meditava su quanto ormai la Gallia si fosse allontanata dalle sue origini e tradizioni: – Ci facciamo chiamare Figli della Gallia, io e quegli altri sciocchi, ma ormai siamo più che altro i Bastardi di Roma: non siamo del tutto romani ma non siamo più interamente galli. – Era un pensiero che la rattristava, questo è certo, ma stranamente le dava anche un senso di orgoglio: – Siamo qualcosa di nuovo, – sembrava pensare – qualcosa che non è mai esistito prima e che può essere persino meglio di quello che erano i nostri antenati.
Alla fine decise di smettere di preoccuparsi, e di dedicarsi alla festa che cominciava ad arrivare al suo culmine. Era bello poter abbandonare tutte le preoccupazioni e gli impegni, almeno per una sera: domani mattina avrebbe ripreso il suo carretto e il suo mulo e sarebbe tornata alla taberna di suo padre ad Arelate; ma stasera era tempo di mangiare, bere e divertirsi.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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