Il Palladium
Arelate, a.d. XIII Kal. Apr. 874 AUC
Era di nuovo il giorno dei Quinquatria e apparentemente tutta Arelate si era data appuntamento nel recinto del tempio.
C’erano i magistri e i patroni dei principali collegia con in testa Egidio Iulio Enobarbo, raggiante d’orgoglio; c’erano i sacerdoti e gli accoliti del tempio dell’Alma Mater, ma anche i sacerdoti e flamines degli altri maggiori templi della città; c’erano i decuriones al completo insieme ai magistrati cittadini e, naturalmente, c’erano i doctores che costituivano il motivo principale per cui tutta questa gente si era radunata in questo pomeriggio di inizio primavera.
C’era persino il proconsole Caio Mario Prisco scortato da un drappello di milites, arrivato la mattina stessa da Narbo apposta per presiedere all’inaugurazione del Palladium: la prima istituzione del genere nella storia di Roma era nata proprio qui, ad Arelate, nella sua Provincia. Nonostante il fatto che la sua partecipazione nell’impresa si fosse limitata al dare una formale autorizzazione al progetto e a un contributo relativamente modesto per il sussidio degli studenti più poveri, il proconsole ne era orgoglioso quasi quanto Egidio.
In poco più di un anno, Egidio e Canio Rufo avevano veramente fatto miracoli: avevano allettato, persuaso, indotto, comprato e, in un caso, cooptato i migliori insegnanti disponibili: da Roma, da Alexandria, da Atene, da Tarraco in Hispania, dalla Syria, dalla Cyrenaica, erano arrivati ad Arelate doctores di retorica, grammatica, geometria, astrologia, medicina, physiologia, kemèia.
Alcuni di loro erano stati attratti dalla promessa di lauti stipendi, altri dalla prospettiva di poter avviare in futuro una loro propria scuola, altri ancora dalla promessa di fondi sostanziosi per finanziare le loro ricerche.
Tutti comunque erano tenuti a dedicare almeno un terzo del loro tempo all’insegnamento. Le lezioni sarebbero state aperte a tutti, esclusi ovviamente gli schiavi ma, cosa quasi inaudita, aperte anche alle donne. Dopotutto la sede del Palladium era il tempio dell’Alma Mater, che ospitava tre delle maggiori dee di Roma, ed escludere le donne dalle lezioni avrebbe potuto essere interpretato come un’offesa a loro.
E non si sarebbe pagata una retta fissa: chiunque poteva venire ad assistere a qualche lezione, ma agli studenti regolari sarebbe stato chiesto di pagare una quota d’iscrizione annuale, compatibile con il censo delle loro famiglie. I giovani più promettenti, anche se provenienti da famiglie povere, avrebbero potuto partecipare gratis: la retta degli allievi benestanti avrebbe coperto anche le loro spese.
Inoltre, per gli studenti provenienti da fuori Arelate, era stata costruita una grande mansio; ubicata a ridosso dell’argine del Rhodanus, poco più a nord del ponte, era in grado di ospitare almeno un centinaio di persone. La struttura era di proprietà della società del Palladium che la gestiva e ne incamerava gli introiti.
Dopo che furono finite tutte le preghiere, le cerimonie, i discorsi e le presentazioni, la faccenda si fece molto meno ufficiale: in attesa del sacrificio e del banchetto pubblico che avrebbero chiuso la giornata, i partecipanti si sparpagliarono in piccoli gruppi a chiacchierare.
A un certo punto Egidio e Canio Rufo si ritrovarono insieme a Mario Prisco: – Com’è andata poi a finire l’inchiesta sui misfatti del tuo segretario, proconsole? – Chiese il flamen.
– Ah, ci sono voluti dei mesi, quel furfante aveva coperto bene le sue tracce. – Gli rispose Mario Prisco: – Siamo riusciti a rintracciare circa venti milioni di sesterzi, che ovviamente sono stati confiscati; denaro ottenuto illegalmente da Citrio Pio con le sue estorsioni e corruzioni e da lui investito utilizzando diversi prestanome. Alla fine, quando ha capito di non aver più nulla da perdere, ha ammesso tutto.
– E quindi l’hai condannato a morte? – Si informò Egidio.
Il proconsole gli lanciò un’occhiataccia: – Come ho già avuto occasione di dirti, io non sono Licinio Verre! Citrio Pio, nonostante sia un liberto, è un uomo libero e un cittadino romano. Non potevo legalmente condannarlo a morte, a meno di non trascinarlo a Roma per essere nuovamente giudicato davanti al Senato e al popolo, ma comunque non se l’è cavata certo a buon mercato.
– Che sentenza ha avuto?
– Damnatio ad metalla. È stato spedito in Hispania Baetica a lavorare nelle miniere di cinabro di Sisapo per il resto della sua vita.
– Che non sarà molto lunga, immagino, – aggiunse Canio Rufo – mi dicono che i lavoratori di quelle miniere difficilmente sopravvivono per più di due o tre anni…
– Come ho detto, flamen, – ripeté il proconsole con un sorriso tirato – non potevo legalmente condannarlo a morte. Adesso è a lavorare in miniera, e se muore sono solo affari suoi.
– Vera, anche tu qui? – Tito e Marco non si aspettavano di incontrare la loro amica ed ex compagna di congiure alla cerimonia di inaugurazione.
– Perché non dovrei esserci? – Rispose lei sorridendo: – Dopotutto frequenterò anch’io i corsi del Palladium, quindi mi sembrava logico essere qui.
– Tu? – Chiese Marco incuriosito: – E che cosa hai in mente di studiare?
– Sì, io, – rispose lei infastidita – ti sembra così strano? Sicuramente retorica, e sono molto incuriosita dalle idee di Aristotele e Cicerone sulla politica. Dopotutto, se vogliamo cambiare la situazione attuale, avere qualche solida base teorica non mi sembra una cattiva idea.
– Giusto, – confermò Tito – la prassi non dovrebbe mai prescindere dalla teoria. Stai sempre portando avanti quel tuo progetto di minoranza, portare il verbo della rivoluzione alle masse diseredate?
– Certamente, cosa credi? – Rispose Vera e, ritorcendo su di loro il sarcasmo: – E voi, con il vostro gruppo di maggioranza, come va con il progetto di una teoria e prassi del collettivismo oligarchico?
– Veramente, dopo l’inchiesta del proconsole, abbiamo deciso di evitare di dare nell’occhio almeno per un po’ di tempo. Dopotutto, adesso che siamo stati identificati, è difficile che possiamo far qualcosa senza essere accusati; e la prossima volta non ce la farà passare liscia.
– E quindi, dopo tutti quei bei discorsi, non avete intenzione di fare più niente?
– Per ora no. Ma Mario Prisco finirà il suo mandato a fine anno, in seguito si vedrà.
– Capisco. Beh, almeno rimango io a ricordare, e a ricordarvi, la nostra parola d’ordine. Æterno duro! – E se ne andò senza voltarsi.