Architettura e medicina


In epoca alto imperiale i romani, o meglio i greco-romani alessandrini, avevano raggiunto competenze tecniche e scientifiche notevoli, ma non bisogna commettere l’errore di pensare che il loro sviluppo e il nostro siano stati paralleli al punto di poterli confrontare mediante una scala comune di progresso scientifico.
Da un lato l’ellenismo aveva già raggiunto nel terzo secolo avanti Cristo dei risultati che sarebbero stati ottenuti di nuovo, dopo la “parentesi” del medioevo, solo nel sedicesimo secolo; d’altro canto alcuni aspetti del loro modo di pensare e di porsi nei confronti di scienza e tecnologia sembrano oggi estremamente primitivi.
In Alma Mater ho accennato a due discipline, architettura e medicina, che mi sembrano in un certo modo emblematiche di questa differenza di impostazione mentale tra il mondo antico e il nostro.
Nei capitoli sei e sette faccio sostenere a Tito Canio Rufo una tesi di cui sono personalmente abbastanza convinto: gli architetti romani erano i migliori del mondo, o almeno del mondo a loro conosciuto, ma nonostante questo avevano delle lacune teoriche che a noi sembrano quasi incredibili.
La scienza della meccanica, come la conosciamo oggi, nasce nel diciassettesimo secolo, con Galileo Galilei: il suo libro “Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze” pubblicato nel 1610 è alla base dei moderni concetti di statica e dinamica.
Fino a Galileo la meccanica era una disciplina sostanzialmente qualitativa più che quantitativa: ad esempio si sapeva bene che una trave grossa è più resistente di una sottile e che una trave corta è più resistente di una lunga, ma la cosa non era espressa in rapporti numerici, e quindi non c’era modo di calcolare di quanto bisogna ispessire una trave se vogliamo farla lunga il doppio7. O se vogliamo che regga un determinato carico.
Il De Architectura di Marco Vitruvio Pollione è un’opera in dieci libri sull’architettura e argomenti collegati: dalla costruzione dei templi alla pavimentazione delle case, come realizzare l’intonaco, i pigmenti per colorare le pareti e le statue, l’acustica dei teatri, la costruzione di macchine.
Nel modo con cui vengono affrontati la maggior parte degli argomenti si nota almeno il tentativo di giustificare le sue affermazioni, in particolare quando parla di acustica e di gromatica (l’arte di allineare correttamente strade ed edifici utilizzando la groma, una specie di teodolite primitivo). Ma quando parla delle misure per la costruzione di edifici, Vitruvio diventa stranamente reticente: fornisce tabelle dettagliate sul numero, le dimensioni e la posizione delle colonne e sullo spessore di architravi e trabeazioni, ma le uniche giustificazioni che dà a questi numeri sono di carattere estetico. La sua preoccupazione sembra quasi essere solo quella di di ottenere l’armonia della facciata, non di far restare in piedi l’edificio.
L’impressione è proprio che nemmeno lui avesse la minima idea di come calcolare il diametro di una colonna o lo spessore di una trave per ottenere un risultato efficiente: le uniche indicazioni che dà sono basate sull’implicito principio che “si è sempre fatto così e quindi andrà bene”.
Incidentalmente, il colonnato sotterraneo che reggeva il foro di Arelate di cui parla Canio Rufo è ancora lì ed è visitabile, diversi metri sotto l’attuale piano stradale, e regge ancora la Place de la République di Arles, dopo più di duemila anni dalla sua realizzazione. Nessun dubbio sul fatto che fosse sufficientemente robusto, ma forse era davvero stato costruito un po’ troppo robusto.
Parlando di medicina, dal nostro punto di vista moderno le cose sono ancora più strane.
La chirurgia era considerata dai romani la sorella povera della medicina: era un’arte manuale e quindi bassa, il termine stesso “chirurgo” viene dalla parola greca che significa “colui che lavora con le mani”. Eppure la chirurgia e l’ortopedia dei romani erano estremamente avanzate, a un livello che forse è stato raggiunto di nuovo solo nel diciannovesimo secolo.
I chirurghi antichi erano sicuramente in grado di trattare una frattura come quella che descrivo nel capitolo cinque, ma anche, tra le altre cose, di pulire e ricucire ferite, conoscevano l’asepsi mediante aceto o estratti vegetali per prevenire infezioni e cancrena, erano in grado di praticare interventi chirurgici quali l’asportazione del cristallino per curare la cecità da cataratta e, probabilmente, la trapanazione del cranio per ridurre gli ematomi subdurali da trauma.
La medicina clinica, invece, era apparentemente molto più arretrata, nonostante una discreta conoscenza dell’anatomia, basata sulla dissezione di cadaveri sia umani che animali, e una farmacopea abbastanza ampia comprendente rimedi sia di origine vegetale che minerale.
La teoria degli umori e del loro squilibrio come causa delle malattie, introdotta da Ippocrate tra il quinto e il quarto secolo avanti Cristo, era ancora prevalentemente accettata come valida, e lo sarà ancora fino a tutto il rinascimento. Perché romani e greci si sono fermati a questa teoria così antiquata e non sono riusciti ad andare oltre? Erano forse stupidi?
Il problema è che per comprendere la vera causa delle malattie, o almeno della maggioranza di esse, mancavano due presupposti: la chimica e l’ottica.
La chimica moderna nasce nel diciottesimo secolo e, senza di essa, è impossibile capire i meccanismi di quella che oggi chiamiamo fisiologia (il termine physiologia aveva un significato diverso duemila anni fa, indicando in genere lo studio degli esseri viventi, quella che oggi chiamiamo biologia). Anche un meccanismo relativamente semplice, come la digestione, era assolutamente inspiegabile con le conoscenze di chimica dell’epoca.
Di conseguenza tutte le malattie metaboliche, dall’indigestione al cancro, erano misteri insondabili: non erano disponibili gli strumenti concettuali per definirne una causa né, a maggior ragione, una cura.
Gli scienziati ellenistici conoscevano i principi dell’ottica ed erano in grado di costruire specchi e, molto probabilmente, lenti; ma al di là di poche applicazioni pratiche, l’ottica rimase una scienza sterile fino al tardo medioevo. E senza l’ottica non si possono costruire microscopi; e senza la microscopia nessuno poteva scoprire che gli esseri viventi sono formati di cellule, immaginare i misteri dell’embriologia o, soprattutto, scoprire l’esistenza dei microorganismi patogeni.
In realtà anche in età antica, ben prima di Pasteur, erano state avanzate ipotesi su una causa esterna di determinate malattie, si era persino ipotizzata l’esistenza di parassiti microscopici, troppo piccoli per essere visti.
Ma in mancanza di una prova diretta, quale l’osservazione al microscopio, queste restavano delle ipotesi puramente speculative, e la scelta di seguire l’una o l’altra delle teorie contrapposte era necessariamente più una scelta di fede che un atto ragionato.
In sostanza, senza la chimica e senza l’ottica, la medicina moderna semplicemente non poteva nascere.

7 O forse può darsi che queste conoscenze di meccanica quantitativa fossero note al tempo di Archimede e fossero andate poi perdute. Rimando per questo al bellissimo saggio divulgativo di Lucio Russo “La Rivoluzione Dimenticata”, Feltrinelli 1997.

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