I ludi, i giochi pubblici, erano una faccenda seria per i romani. All’inizio della Repubblica i ludi avevano un carattere prevalentemente religioso, come i sacrifici a cui erano strettamente connessi.
Con il passare del tempo, crebbe sempre di più l’aspetto di intrattenimento popolare, a scapito della valenza come cerimonia religiosa, ma quest’ultima non scomparve mai del tutto. Ancora nel primo secolo aC, praticamente alla fine della Repubblica, non esistevano a Roma veri e propri teatri, in quanto tutte le rappresentazioni teatrali erano legate a cerimonie religiose e venivano tenute in strutture provvisorie costruite ad hoc e smontate subito dopo. Il primo teatro in muratura fu voluto da Pompeo Magno, il futuro triumviro, nel 61 aC e, per aggirare il divieto di costruire teatri “profani” fece incorporare nella struttura un tempio a Venere Victrix, facendo così figurare il teatro come parte del tempio stesso.
In linea di massima i ludi si dividevano in due categorie: i ludi scaenici, tragedie e commedie, venivano rappresentati nelle scenae, o teatri, mentre i ludi circenses, corse e combattimenti, si tenevano nel circo. In età imperiale l’enorme popolarità dei combattimenti dei gladiatori portò alla realizzazione di strutture apposite, gli anfiteatri (il più famoso è l’anfiteatro Flavio a Roma, noto come Colosseo), che erano sostanzialmente dei circhi più corti, quasi circolari invece che molto allungati, per permettere agli spettatori di vedere meglio l’intera azione.
I circhi erano strutture simili agli stadi o agli ippodromi moderni; il circo più grande mai costruito, il Circo Massimo a Roma, era immenso: più di 600 metri di lunghezza per una larghezza di circa 150 metri, e con le gradinate disposte su tre livelli per un’altezza di probabilmente circa 10 metri. Gli autori antichi forniscono stime discordanti sul numero di spettatori che poteva accogliere, a partire dalla cifra di 250.000 citata da Plinio a numeri ancora più alti, fino a 450.000, da parte di altri autori. I calcoli basati sulle dimensioni delle gradinate e sulla stima del loro numero, portano a cifre un po’ più ridotte, forse tra 150.000 e 200.000 spettatori.
Naturalmente il Circo Massimo è un caso limite, nelle altre città e nelle colonie provinciali esistevano circhi di dimensioni più modeste e, nella maggior parte dei casi, con struttura in legno invece che in pietra. Ma la forma e le caratteristiche del circo rimanevano ovunque più o meno le stesse.
Lo spazio centrale, l’arena, era delimitato sui due lati lunghi e sulla curva dalle gradinate aperte al pubblico e sul rimanente lato corto dalla struttura dei carceres, le gabbie di partenza che, nella ricostruzione in figura, si vedono in alto a sinistra. Al centro della curva c’era invece l’ingresso all’arena, da cui entravano sia i carri che partecipavano alle corse, sia la processione inaugurale dei giochi che, ricordiamo, erano un fatto religioso oltre che di intrattenimento.
L’arena era anche divisa in due, per quasi tutta la sua lunghezza, dalla spina, una struttura in muratura che inglobava al suo interno statue, altari, nel caso del Circo Massimo due obelischi. Era lungo la spina che venivano tenute le cerimonie all’inizio dei ludi ed essa era terminata alle sue estremità da due colonne, le metae, attorno alle quali dovevano girare i carri.
La corsa cominciava quando il magistrato preposto ai giochi, in genere un aedilis in età repubblicana, spesso l’imperatore stesso durante l’Impero, dava il segnale di partenza. L’uso di segnalare la partenza lasciando cadere la mappa, un panno bianco, sembra sia relativamente tarda, forse introdotta da Nerone; ma visto che non sappiamo come facessero prima, ho deciso di farla utilizzare nel racconto anche se probabilmente è anacronistica.
Al segnale di partenza un meccanismo faceva aprire contemporaneamente tutti i cancelli dei carceres e i carri cominciavano a correre verso il rettilineo seguendo delle corsie ben delimitate. La linea dei carceres era curva e inclinata in modo da far sì che le corsie di partenza fossero tutte della stessa lunghezza, in modo da non dare un vantaggio a chi partiva da destra rispetto a chi partiva da sinistra.
Una volta raggiunto l’inizio del rettilineo, non c’erano praticamente più regole; gli aurighi potevano scegliere la loro traiettoria, cercando naturalmente di avvicinarsi alla spina in modo da aggirare la meta da vicino, potevano intralciare intenzionalmente gli avversari e anche frustare i loro cavalli per farli rallentare o imbizzarrire. Praticamente l’unica cosa che era proibita era colpire direttamente gli altri aurighi.
La corsa si svolgeva in sette giri completi dell’arena, doppiando sette volte la prima meta e terminava quando il primo carro raggiungeva per la settima volta la seconda meta. Ciascuna corsa aveva un solo vincitore, per i romani non c’era nessun premio per il secondo arrivato. Ogni volta che il carro di testa raggiungeva la seconda meta, un inserviente faceva cadere dalla spina un uovo di pietra; ce n’erano sette, uno per ciascun giro, e la caduta dell’ultimo uovo indicava il termine della corsa.
In una giornata di ludi si tenevano un certo numero di corse consecutive. Ciascuna corsa durava probabilmente circa dieci o quindici minuti e, considerando il tempo necessario per riassestare la sabbia dell’arena e per sorteggiare e portare in posizione i carri, doveva esserci circa una corsa ogni mezz’ora. In origine il numero canonico di corse in una giornata era probabilmente di dodici, ma in epoca imperiale venne aumentato: a ventiquattro sotto Caligola e pare fino a cento da Nerone.
La quadriga era formata da un carro leggero a due ruote, prevalentemente costruito in legno e cuoio, e collegato con una stanga a una coppia di cavalli aggiogati (gli iugales, da iugum, giogo). Gli altri due cavalli (i funales, da funis, corda) erano legati alla bardatura dei primi due, uno a destra e uno a sinistra, e l’auriga teneva le loro redini legate in cintura; in questo modo aveva le mani libere e poteva guidare il tiro di cavalli spostandosi leggermente a destra o sinistra sul carro.
Gli aurighi portavano un casco di cuoio e protezioni per il corpo e a braccia e gambe. La protezione era importante perché in caso di incidenti il carro, leggero e fragile, spesso andava in pezzi e l’auriga si ritrovava trascinato sull’arena dai suoi cavalli, a cui era legato per le redini. Per potersi liberare, portava in cintura un coltello corto e curvo, detto falx, con il quale tagliare le redini in caso di naufragium.
Sia il carro che i vestiti dell’auriga erano del colore della sua factio, la scuderia per la quale correva. Le factiones erano organizzazioni private che fornivano cavalli e aurighi per i ludi e, per quasi tutta la storia di Roma, furono quattro, contraddistinte dai colori rosso, azzurro, verde e bianco. Le factiones erano un importante fattore economico a Roma e, nel tardo Impero, acquisirono anche aspetti politici; vedi ad esempio la cosiddetta Rivolta di Nika quando, nel 532 a Costantinopoli, uno scontro tra le factiones dei verdi e degli azzurri portò quasi alla deposizione dell’imperatore Giustiniano.
A ogni singola corsa partecipavano in genere dodici quadrigae, tre per ciascuna delle quattro factiones. Era abbastanza normale che venisse fatto quello che oggi chiamiamo gioco di squadra: dei tre aurighi di ciascuna factio uno era il campione, che ci si aspettava potesse vincere, mentre gli altri due erano dei gregari che avevano soprattutto il compito di intralciare gli avversari per favorire il loro capitano.