Capitolo 28


Oceano, Kalendae Dec. 874 AUC

Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
Questo è il secondo giorno dopo la fine della tempesta che ci ha strappato dalle coste di Africa e gettati in mezzo a Oceano.
Il vento è completamente caduto e da ieri stiamo navigando a remi seguendo la rotta di nordovest consigliata da Claudio Tolomeo ma, anche se evitiamo tutti di parlarne per evitare il panico e per mantenere la disciplina nell’equipaggio, la nostra situazione è estremamente grave, probabilmente disperata.
I fatti: siamo dispersi in posizione ignota in un tratto di Oceano inesplorato, le uniche informazioni che abbiamo sulla possibilità di ritornare a terra poggiano sui calcoli approssimativi e le vaghe ipotesi fatte dal nostro astrologo che, comunque ritiene che ci troviamo a quasi mille miglia dalla costa.
Ammesso che la sua stima sia corretta, e ammesso anche che la direzione in cui ci muoviamo sia quella che ci porterà più rapidamente alla costa, saranno necessari non meno di dieci giorni, se dovremo navigare solo a forza di remi, per arrivare in vista della terraferma.
Le nostre scorte di acqua e viveri si esauriranno prima: ne abbiamo al massimo per altri sei o sette giorni.
D’altra parte non avrebbe senso imporre un razionamento sul cibo per almeno due motivi: in primo luogo l’effetto sul morale sarebbe devastante, se si diffondessero voci sull’effettiva gravità della nostra situazione sarebbe un disastro.
Inoltre un remex affamato non rema certo con la stessa efficienza di uno ben nutrito, e quindi perderemmo in velocità tutto quello che avremmo potuto guadagnare dal razionamento: le scorte durerebbero un po’ di più ma procederemmo più lentamente, e quindi sarebbe più lungo anche il viaggio di ritorno.
Quindi proseguiamo, sperando contro ogni logica che Claudio Tolomeo e i suoi assistenti si siano sbagliati nel calcolare la distanza percorsa, o che improvvisamente si levi un vento di Eurus che ci riporti rapidamente verso la costa africana.


– Terra! Terra alla nostra destra! –
Il richiamo della vedetta di prua colse tutti di sorpresa. Sul disco Gibil, Aktis e Tolomeo si guardarono l’un l’altro rispettivamente con aria ironica, perplessa e incredula.
– Ci dev’essere un errore… – Cercò di dire Claudio Tolomeo esitante.
– Questo mi sembra evidente, – ritorse Gibil, divertito per una volta di vedere contraddette le previsioni dell’astrologo – direi che i tuoi calcoli erano completamente sbagliati!
– Però c’è qualcosa di strano: la tempesta ci ha spinto a una velocità folle per quattro giorni, – aggiunse Aktis – non è possibile che siamo ritornati indietro a remi in meno di due.
– Forse durante la tempesta abbiamo girato in tondo… – Provò a insinuare Gibil, interrompendosi bruscamente quando Sobadako gli lanciò un’occhiataccia.
– O forse, – intervenne Tolomeo che aveva ripreso un po’ della sua solita sicurezza – non siamo tornati al punto di partenza. Quella che vediamo potrebbe non essere la costa africana, ma un’isola.
– Dici che potremmo essere già arrivati a Taprobane in India? – Chiese Aktis dubbioso.
– No di certo! Dal punto in cui siamo stati colti dalla tempesta a Taprobane ci sono più di cinquemila miglia. Inoltre, – aggiunse – Taprobane è a nord della linea aequinoctialis mentre noi ne siamo ancora a sud.
– E allora che cos’è quella costa verso cui ci stiamo dirigendo? – Chiese Dominico con il suo solito spirito pratico.
– Non lo so, – ammise Claudio Tolomeo – ma se dovessi azzardare un’ipotesi direi che si tratta di un’isola sconosciuta, al largo della costa africana.
– Bene, se è così lo scopriremo presto. Comunque, che si tratti di un’isola, dell’India o della Seria, quella costa per noi è un dono degli dèi. Là potremo trovare acqua e cibo, senza i quali saremmo stati perduti.


Verso mezzogiorno giunsero in vista di una riva abbastanza spoglia, bordata da linee di scogliere che non permettevano un approdo sicuro.
Seguirono la costa verso nordest per una quarantina di miglia, fino a trovare un punto adatto allo sbarco: un grande fiume sfociava in mare su un tratto di spiaggia sabbiosa; l’estuario era parzialmente chiuso da una lingua di terra che creava un magnifico porto naturale e alle spalle aveva una fitta foresta.
La spiaggia era stretta, appena poche decine di passi, ma all’interno dell’estuario trovarono una distesa sabbiosa e relativamente spoglia lunga e larga almeno un centinaio di passi. Qui Dominico decise di porre il campo.
Prima di sera era tutto pronto: il castrum realizzato con l’usuale celerità e perizia dei milites, la Inceptio ancorata a poca distanza dalla riva sabbiosa, la maggior parte delle tende già innalzate, la legna secca raccolta dai margini della vicina foresta.
Nel campo cominciavano ad accendersi i fuochi per preparare la cena e si facevano progetti per i prossimi giorni: la prima necessità era di procurarsi acqua e viveri, in seguito si sarebbe dovuta esplorare la costa per verificare l’ipotesi di Claudio Tolomeo; se questa era davvero un’isola bisognava scoprire quanto era grande e da quali popoli fosse abitata.


Per rinnovare la scorta d’acqua fu necessario risalire di diverse miglia il fiume le cui acque vicino all’estuario erano torbide e fangose. Per circa due miglia il fiume era largo, con fondali bassi e cosparso di secche e isolette, anche di dimensioni notevoli; la Inceptio lo percorse lentamente e con cautela, con i marinai che sondavano continuamente il fondale per paura di incagliarsi su una secca nascosta.
Poi improvvisamente il corso cambiò del tutto: bruscamente il letto del fiume si restrinse a quasi un terzo dell’ampiezza della foce e il corso divenne profondo e rapido. Dominico ordinò allora di proseguire ancora e, dopo poco meno di un miglio, gettarono le ancore in mezzo al fiume in corrispondenza di un’altra ansa.
In quel punto la riva sinistra del fiume era coperta di erba e bassi cespugli, ma nelle vicinanze si vedevano macchie di foresta; mentre una parte dell’equipaggio restava a bordo per pulire e riempire di acqua fresca i barili, la prima e la terza centuria vennero fatte sbarcare con le scialuppe per organizzare una battuta di caccia. A loro si unirono Arvind per esaminare la flora e la fauna locale e Azrur come interprete, nel caso incontrassero degli indigeni.


La caccia non stava andando bene.
Non c’era traccia dei cervi, antilopi o bufali che i milites si erano abituati a trovare abbastanza facilmente perlustrando le pianure vicino ai fiumi. In due ore di caccia tutto quello che avevano preso erano un paio di dozzine di uccelli simili a pernici e una specie di roditore grande come un piccolo cane: un ben magro risultato per una spedizione di centosessanta cacciatori!
Aktis stava pensando di rinunciare e tornare alla nave, forse sarebbe stato meglio spostarsi in un’altra zona, magari per qualche motivo solo questa riva del fiume era poco popolata, quando il flusso dei suoi pensieri venne interrotto dal richiamo di uno dei milites della terza centuria: – Guarda qui, centurione, roba da non crederci!
L’uomo era chinato a terra a una certa distanza da lui e stava indicando due grossi oggetti bianchi e ovali; si sarebbero dette delle uova, ma naturalmente non potevano esistere uova così grandi.
– Cosa sono, Tito? – Gli chiese uno dei compagni avvicinandosi?
– E a te cosa sembra che siano, Lucio? Sono uova. Se avessimo anche quattro o cinque librae di cipolle per condirle, ci si potrebbe fare una frittata abbastanza grande da sfamare tutto l’equipaggio.
– Non dire sciocchezze, non esistono uova così grandi. Te l’immagini, – continuò Lucio – una gallina così grande da fare uova grosse cinque palmi?
– Guarda da te se non ci credi. Certo che se trovassimo la gallina che le ha fatte, avremmo da mangiare pollo arrosto per tre giorni…
Le uova, o qualsiasi cosa fossero, erano seminascoste nell’erba al margine di un tratto di bosco in cui non si erano ancora addentrati. Tito e Lucio erano un po’ più avanti dei loro compagni di squadra e successe tutto così rapidamente che nessuno riuscì a reagire abbastanza in fretta: dal bosco, a una dozzina di passi dai due, uscì correndo a una velocità impressionante una cosa enorme che puntò direttamente su di loro.
Sembrava una specie di struzzo, ma era assolutamente gigantesco, alto il doppio di un uomo. In pochi istanti raggiunse i due milites che non si erano ancora raddrizzati in piedi del tutto e sbatté a terra Tito con un calcio mentre abbassava il lungo collo e colpiva Lucio alla testa con il becco enorme.
Lucio finì a terra senza un lamento, mentre l’uccello mostruoso si girava per occuparsi di Tito che era ancora a terra, stordito dal colpo ricevuto. Prima che riuscisse a aggredirlo di nuovo, venne però colpito al fianco dal pilum scagliato da Aktis e, mentre barcollava per l’impatto, venne finito dal lancio di altri sei o sette pila.
Aktis fece suonare il corno per richiamare tutta la squadra e poi, mentre qualcuno correva alla Inceptio per chiamare il medico Gibil, cercarono di soccorrere i feriti. Fu subito evidente che per Lucio non c’era niente da fare, era sicuramente morto sul colpo: il becco di quella specie di struzzo, lungo più di un piede e grosso come quello di un pappagallo, gli aveva sfondato il cranio come se fosse stato un melone.
Tito invece respirava ancora e si lamentava debolmente; quando finalmente dalla nave arrivò Gibil accompagnato da uno dei chirurghi lo visitò rapidamente e diagnosticò che aveva un braccio e probabilmente diverse costole rotte: – Fai preparare una barella per trasportarlo, – disse ad Aktis – mentre noi gli immobilizziamo il braccio. È stato fortunato e probabilmente se la caverà senza troppi danni, sperando che una delle costole rotte non perfori un polmone.
Tre ore dopo erano di nuovo tutti a bordo della nave: le due centuriae, Arvind, Azrur, Gibil, il ferito Tito, la carcassa del mostruoso uccello, le sue uova e il cadavere di Lucio. Il giorno dopo si sarebbe provveduto al funerale, dopo aver raccolto la legna necessaria per la pira. Nonostante le tragiche circostanze, Arvind era entusiasta della scoperta di questo incredibile animale: era evidente che un uccello di quelle dimensioni non avrebbe mai potuto volare; tanto più che, a differenza dello struzzo, non aveva neanche le ali. La bestia pesava circa seicento librae e quando era in piedi e con il collo eretto superava probabilmente i dieci piedi di altezza. Le uova poi erano grosse quasi il triplo di quelle di uno struzzo e pesavano più di trenta librae ciascuna!
Avrebbero scoperto presto se era buono da mangiare. Per quanto queste bestie fossero evidentemente pericolose, se si fossero rivelate comuni in questa terra avrebbero potuto risolvere il problema del cibo.


La carne dello struzzo gigante risultò essere ottima, come pure le uova; avrebbero dato da mangiare all’equipaggio per almeno due o tre giorni.
Poiché sembrava che questa zona non offrisse grandi possibilità per la caccia, Dominico propose di cominciare l’indomani stesso il tentativo di circumnavigazione dell’isola, se davvero di un’isola si trattava.
– Possiamo navigare verso nord o verso sud: – disse parlando con Aktis – se si tratta di un’isola non farà differenza, ritorneremo comunque prima o poi al punto di partenza.
– Se invece fossimo in un qualche punto della costa africana penso che ci converrebbe andare verso sud: – suggerì Aktis – quando arriveremo al luogo in cui ci ha colto la tempesta sapremo per certo dove siamo.
– È vero, ma probabilmente dovremmo viaggiare per molti giorni per arrivarci, – intervenne Claudio Tolomeo – ricordati di quanta strada abbiamo fatto durante la tempesta.
Dominico aveva l’aria preoccupata: – Hai ragione. Non è che sia un problema allungare il viaggio di una decina di giorni, o anche di un mese, ma mi preoccupa la reazione dell’equipaggio.
– Di cosa sei preoccupato? – Si stupì Aktis: – lo sanno anche loro che dobbiamo fare ancora molta strada prima di arrivare al Sinus Arabicus e all’Egitto.
– Certamente. Ma pensa all’effetto sul morale se dopo tutto quello che è successo ripartiamo navigando verso sud, per molti giorni, torniamo sul luogo dell’incidente che per poco non ci ha distrutto la nave e poi torniamo di nuovo indietro.
– Capisco. Quindi preferiresti andare verso nord?
– Sì, ma in questo caso, se questa non è un’isola, lasceremmo inesplorato un tratto di costa di diverse centinaia di miglia.
– È un bel dilemma: come trierarca giustamente non puoi ignorare il morale dell’equipaggio, ma d’altra parte non vuoi trascurare una parte della missione che ci è stata assegnata.
– Infatti, e non sono certo di quale delle due scelte sia quella giusta.
– Beh, – commentò Gibil – se la scelta è tra lasciare inesplorato un pezzetto di costa e rischiare un ammutinamento, io non avrei dubbi.
– Non hai tutti i torti, – convenne Dominico – dopotutto quello che dobbiamo fare noi è di tracciare una prima mappa delle coste, qualcun altro dovrà poi approfondire l’esplorazione, studiare il corso dei fiumi e così via. In effetti lasciare inesplorato un tratto di poche centinaia di miglia non dovrebbe essere un problema grave… D’accordo, domani ci occuperemo del funerale di Lucio e il giorno dopo riprenderemo il mare ed esploreremo la costa verso nord.

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