Capitolo 29


Sami

Alla fine partiamo. Il giorno precedente le Kalendae di November alle prime luci dell’alba comincia la lunga e lenta marcia verso sud.
I milites sono abbastanza sconcertati dalla lentezza con cui avanziamo: per loro “marciare” significa percorre venti, venticinque miglia al giorno, camminando dall’alba al tramonto in formazione con la sarcina in spalla. Questa invece sembra una passeggiata sulla neve: l’avanguardia è formata dai pastori sami con le loro mandrie di boazu che avanzano lentamente, in ordine sparso, spesso fermandosi qua e là per brucare da un cespuglio che sporge sopra il manto nevoso o scavare la neve con i loro zoccoli alla ricerca di erba. Dietro di loro vengono i reaka trainati dai grossi castroni che i sami chiamano heargi, guidati dai pastori più anziani, poi vengono le donne e i bambini piccoli e poi i nostri milites, che cercano inutilmente di mantenere una formazione, ma sono intralciati dal fatto di dover camminare con le caligae nivariae ai piedi e dalla lentezza dell’avanzata.
Al tramonto del primo giorno di marcia, tramonto che arriva prestissimo, quasi fossimo già in pieno inverno, abbiamo percorso forse cinque o sei miglia e, guardando indietro verso nord, possiamo ancora vedere il profilo del nostro castrum abbandonato a se stesso.
Nei giorni successivi i milites imparano ad adattarsi a questa marcia rallentata: mentre i boazu vanno avanti con il loro procedere intermittente accompagnati dai loro pastori, la maggior parte dei milites e alcuni dei giovani sami restano più indietro, aprendo la formazione a ventaglio ai due lati della carovana, e vanno a caccia: in gruppetti di cinque o sei si allontanano cercando le tracce di possibili prede: piccoli animali, volpi, martore, persino degli ahma, come li chiamano i sami, che sono delle specie di faine molto grosse e molto aggressive: il più grosso che abbiamo preso era lungo tre piedi e pesava più di cinquanta librae.
Dopo qualche ora di caccia, le squadre tornano a convergere sulla pista della carovana e la raggiungono facilmente, dato che questa si muove a una velocità minima. Questo è uno dei pochi vantaggi di viaggiare sulla pianura coperta di neve: è letteralmente impossibile perdersi! La mandria di boazu lascia dietro di sé una traccia così larga e profonda che anche un cieco saprebbe ritrovarla.
In questo modo procediamo verso sud. I sami non sembrano preoccupati della lentezza del nostro avanzare e poiché sono loro che conoscono il territorio e le piste, ci dobbiamo fidare del loro giudizio.


Quando la carovana si ferma montiamo l’accampamento. Noi romani abbiamo le nostre normali tende legionarie che non sono particolarmente adatte a questi freddi ma, usando una tenda per dieci o dodici milites invece dei normali otto, si riesce a sopravvivere senza congelare. La notte nevica quasi sempre un po’ e paradossalmente uno strato di due o tre pollici di neve sopra la tenda sembra che aiuti a tenere all’interno il poco calore prodotto da un braciere.
I sami invece hanno le loro tende circolari, costituite da quattro o cinque pali che sostengono una copertura conica di pelle, con al centro un piccolo focolare aperto. In ogni tenda alloggiano da due a cinque persone, in genere una coppia con i figli; sembra che il loro sistema sia più efficiente del nostro, anche perché le nostre tende hanno una forma che rende impossibile accendere un fuoco senza incendiare tutto, e per di più non hanno un foro in cima per far uscire il fumo.
Più proseguiamo nella nostra marcia e più l’inverno si avvicina: siamo quasi alla fine di November, il sole ormai non si alza che di una decina di gradi sopra l’orizzonte e la durata del giorno si fa sempre minore. Quasi a voler compensare la mancanza di sole, la luna è invece sempre più alta nel cielo e, in questa pianura imbiancata dalla neve, illumina a sufficienza per continuare il cammino. Ormai non usiamo più l’alternanza tra il giorno e la notte per determinare i nostri ritmi, ma una combinazione della breve comparsa quotidiana del sole con l’irregolare presenza della luce lunare.
Partendo dal castrum per il lungo viaggio, con mio grande disappunto abbiamo dovuto abbandonare quasi tutti i nostri strumenti astrologici. Ho potuto portare con me solo i miei appunti, la pergamena con l’attrezzatura per scrivere e la mia dioptra; quest’ultima non potevo abbandonarla, è il minimo indispensabile che mi permette di continuare a tenere traccia del percorso che stiamo seguendo.
Dall’osservazione dell’altezza delle stelle e della direzione di alcune montagne che ho scelto come punti di riferimento, sono giunto a calcolare che la nostra carovana avanza costantemente in direzione sud-sudovest a una velocità media di circa sei o sette miglia al giorno; se la previsione dei sami è corretta, cioè se ci metteremo due mesi a raggiungere il mare di ghiaccio, questo dovrebbe trovarsi a una distanza dal castrum di poco meno di quattrocento miglia.
Spero di non sbagliarmi, ma calcolando sulla base del clima delle due località questa è approssimativamente la distanza che ci separa dall’estremità nord di quel mare interno in cui ci trovavamo nel mese di Iulius, dove sfociava quel fiume presso cui ci siamo accampati la notte in cui il sole non è tramontato. È possibile che questo fiume coperto di ghiaccio che stiamo seguendo sfoci proprio in quel mare? O che addirittura si tratti proprio dello stesso fiume dal cui estuario abbiamo fatto provvista d’acqua cinque mesi fa?
Non oso sperarlo, per paura che Fortuna ci giochi un altro dei suoi brutti tiri. Ma se per volere degli dèi si trattasse davvero di quello stesso fiume, o perlomeno se sfociasse nello stesso mare, avremmo il notevole vantaggio di non essere più dispersi in terre sconosciute, ma di poter utilizzare per il ritorno gli appunti relativi alla costa che abbiamo preso all’andata. Non sarà molto, ma ci aiuterebbe quanto meno a sapere a che cosa stiamo andando incontro.


Le battute di caccia stanno ottenendo notevoli risultati: qualche giorno fa una dozzina di milites hanno seguito una pista che attraversava il nostro percorso e sono riusciti ad abbattere una specie di cervo di dimensioni mai viste prima: una bestia di quasi mille librae con degli enormi palchi a forma di mano aperta, con una parte piatta e delle ramificazioni che raggiungevano una larghezza complessiva di oltre sei piedi.
A fianco di questo mostro, persino i boazu sembrano piccoli! I sami sono stati molto eccitati della nostra caccia e ci hanno detto che la bestia, che loro chiamano sarava, è una preda molto ambita perché la sua carne è buona ed abbondante.
In effetti ci sono volute ore per macellarla e alla fine di carne ce n’era per tutti, compresi i sami che sembravano dare per scontato di aver diritto a riceverne una parte. Gli enormi palchi della bestia sono stati invece regalati al noaidi che sembrava esserne particolarmente interessato, credo che li utilizzerà per realizzare sculture, forse oggetti magici.


Oggi, terzo giorno delle Nonae di December, il sole non è sorto. A un certo momento l’orizzonte verso sud ha cominciato a schiarirsi, come per l’approssimarsi dell’alba, e poi la notte è tornata buia. Proseguiamo la marcia alla luce della luna.


Durante la caccia di oggi (parlo di “oggi” più che altro per abitudine; poiché il sole continua a non farsi vedere, tecnicamente è sempre notte) è capitato uno spiacevole incidente. Una delle nostre squadre di caccia stava seguendo le tracce di una volpe ferita e, a circa un miglio dalla carovana l’ha trovata. Il problema è che prima di loro l’aveva trovata qualcun altro.
I nostri cacciatori sono arrivati di corsa nella radura, con la loro buffa andatura saltellante sulle caligae nivariae, e praticamente sono finiti addosso a un orso, grosso, affamato e molto nervoso, che stava tranquillamente sbranando la povera volpe.
L’orso non ha gradito l’interruzione del suo pranzo e, prima ancora che i nostri capissero cosa stava succedendo, due di loro erano a terra: il primo, un miles della seconda centuria, ha ricevuto una zampata in pieno petto che l’ha sbattuto contro un albero; per fortuna la lorica l’ha protetto dagli artigli, ma nell’impatto si è fratturato un braccio. Il secondo, Marco Varo, l’optio della prima centuria, è stato ancora meno fortunato in quanto l’orso lo ha colpito al braccio sinistro, squarciandolo orribilmente.
Gli altri sei milites della squadra, che per loro fortuna erano indietro di qualche passo, hanno immediatamente lanciato i loro pila, prima quelli leggeri e poi quelli appesantiti, e l’orso è caduto senza poter fare altri danni. Due di loro sono tornati alla carovana il più velocemente possibile ed è stata organizzata una spedizione per soccorrere i feriti e recuperare la carcassa dell’orso.
La reazione dei sami alla vista dell’orso abbattuto, che loro chiamano gougia, è tale da spaventarci un poco, riportandoci alla mente l’avvertimento di Caio Segimondo sul divieto di uccidere gli orsi quando ci trovavamo nel territorio dei burgundi. I sami si precipitano a guardare il cadavere dell’orso, evitando accuratamente di avvicinarsi troppo, con un atteggiamento quasi reverenziale e spiegano che dobbiamo evitare di toccarlo o scuoiarlo e attendere l’arrivo del noaidi.
Quando quest’ultimo arriva e ci spiega tutto la situazione si rivela meno preoccupante di quanto temevamo: sì, il gougia è un animale sacro per i sami, ma non è proibito cacciarlo anzi, ucciderne uno è la migliore iniziazione possibile per un giovane. Però una volta che l’animale è stato ucciso è necessario seguire le regole e i giusti rituali, per ringraziare il suo spirito per il dono della sua carne, scusarsi con lui per la violenza a cui è stato sottoposto e assicurargli l’accesso al cielo, da cui potrà tornare in un altro corpo, di nuovo nella sua foresta.
Il rituale è lungo e complesso e nell’insieme richiede quasi l’intera giornata: la carcassa dell’orso viene scuoiata in modo da staccare tutta la pelle in un solo pezzo, ad eccezione delle zampe con i loro artigli e della testa. La testa, sede dello spirito, viene staccata intera e affidata a due giovani sami che si arrampicano sull’albero più alto della radura e la fissano ad uno dei rami più alti; il noaidi ci spiegherà poi che l’albero costituisce il collegamento tra la terra e il cielo, tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Portando lo spirito del gougia in questo modo sui rami più alti, si assicura il suo passaggio in cielo.
La carcassa viene adesso fatta a pezzi, con estrema cura, in modo da disarticolare le zampe senza spezzarne le ossa e i vari pezzi sono arrostiti sul fuoco; una volta che la carne è cotta, le ossa vengono scarnificate accuratamente e messe da parte.
Il noaidi ha continuato a battere sul suo kannus e a cantare per tutto la durata di questa operazione; quando tutte le ossa sono state separate, prende lui il controllo delle operazioni. Sotto la sua supervisione un tratto di terreno di circa quattro piedi per tre viene liberato dalla neve e il terreno approssimativamente livellato con delle pale di legno; in questo spazio vengono deposte con cura le ossa del gougia, rispettando l’ordine che avevano nel corpo dell’animale: prima la spina dorsale, poi il bacino, infine le ossa degli arti inferiori e superiori. Mi rendo conto ad un tratto che la spina dorsale è stata orientata in modo da puntare verso l’albero su cui è stata posta la testa.
Ora che lo scheletro dell’orso è stato composto correttamente, i sami si danno un gran daffare a cercare pietre, cosa non facile visto che tutto è coperto da uno spesso manto di neve. Con queste coprono la sepoltura dell’orso, costruendo una specie di rozza piramide di sassi, e infine coprono il tutto con uno strato spesso circa un piede di zolle di terra.
Con un’ultima lunga cantilena da parte del noaidi, di cui non capiamo neanche una parola, si conclude questa solenne cerimonia e si può procedere a mangiare la carne che l’orso ci ha così gentilmente fornito.


È il settimo giorno delle Kalendae di Ianuarius ed oggi è morto Marco Varo, a causa delle ferite riportate quattro giorni fa durante l’assalto dell’orso.
È il dodicesimo a cadere in questa marcia verso sud che sembra infinita; gli altri sono tutti morti di congestione polmonare dovuta al freddo: nonostante le cure di Dionyso dopo due o tre giorni di tosse di petto e febbre alta, una mattina non si sono più svegliati.


Thalassa! Thalassa!
Nella mezza luce di questa brevissimo terzo giorno delle Kalendae di Ianuarius dell’anno 875 AUC vedo in lontananza il fiume, che già da diversi giorni stiamo seguendo da vicino, allargarsi in una distesa sconfinata e, come Xenophon quasi cinquecento anni fa, non posso evitare di lanciare un grido esultante.
Thalassa! Il mare!
Quando dopo un paio d’ore arriviamo finalmente sulla costa, lo spettacolo è impressionante, anche se in maniera non particolarmente piacevole: a perdita d’occhio davanti a noi si vede solo il mare, completamente ghiacciato.
Sì, so che chi leggerà queste parole, magari nel piacevole calore della sua villa di Baiae, penserà che sia una follia quello che sto descrivendo, come è stato preso per stolto o bugiardo Pytheas che tanti anni fa descrisse lo stesso fenomeno. Ma non posso negare quello che i miei occhi mi stanno mostrando: il mare davanti a noi, e sono ben certo che si tratti di un mare, è coperto da una lastra di ghiaccio così spesso che non solo noi possiamo camminarci sopra, ma anche i boazu con tutto il loro peso lo stanno facendo senza che il ghiaccio si spezzi.
Siamo finalmente giunti alla fine della prima tappa del nostro percorso verso sud, e devo ammettere che i sami avevano previsto esattamente il tempo necessario per arrivarci. Decidiamo di comune accordo di fermarci qui per un paio di giorni, per riposarci e per festeggiare l’evento.
Io e i miei assistenti approfittiamo della sosta per effettuare rilievi il più possibile precisi della nostra posizione, e con mio grande piacere scopriamo che siamo davvero nello stesso luogo dove la Viatrix era ormeggiata quasi sei mesi fa.
Quindi adesso almeno sappiamo dove siamo e quanta strada dobbiamo ancora fare: circa novecento miglia verso sud e poi altre trecento verso ovest, per arrivare alla penisola di Cimbria e all’Oceanus Germanicus; da lì sono poco più di trecento miglia per arrivare alla foce del Rhenus in Germania Inferior, in territorio romano.
Quindi dobbiamo ancora percorrere circa millecinquecento miglia di costa, senza contare l’attraversamento dello stretto. I sami ci accompagneranno ancora per un po’, con i loro boazu a trainare i reaka con i nostri bagagli e le nostre provviste; poi dovremo proseguire da soli, lungo una costa che per almeno due terzi del percorso è abitata da popolazioni germaniche ostili. Non so come potremo farcela, ma spero che Quinto Flavio si faccia venire qualche buona idea.


Il cammino sulla sponda occidentale del mare ghiacciato dura cinquanta giorni nei quali percorriamo un po’ più di trecento miglia ed ora, al decimo giorno delle Kalendae di Martius, siamo arrivati al luogo in cui dovremo abbandonare i nostri amici sami e continuare da soli, sarcina in spalla, il nostro viaggio verso sud.
Durante quest’ultimo tratto del viaggio abbiamo imparato dai sami la tecnica per la caccia alle foche del ghiaccio. Queste foche sono più piccole di quelle che abbiamo preso più a nord sulle rive di Oceano, e passano la maggior parte del tempo sotto il ghiaccio che copre questo strano mare. Anche loro hanno però bisogno di respirare ogni tanto, e per farlo sporgono la testa attraverso dei fori nel ghiaccio.
Il metodo per cacciarle è abbastanza semplice e richiede soprattutto pazienza, e la capacità di restare immobili e in silenzio. Ci si apposta di fianco a uno di questi fori, che sono abbastanza difficili da individuare se non si sa esattamente cosa cercare, e si aspetta con l’arpione in pugno, fermi, in silenzio, a volte per ore intere. Quando la foca sporge la testa per respirare si scaglia l’arpione, e bisogna colpire bene perché se si fallisce non ci sarà tempo per un secondo colpo: la foca si immergerà di nuovo e non si farà più vedere; e se si sbaglia il colpo, si rischia anche di perdere l’arpione sotto il ghiaccio, da dove è impossibile recuperarlo.
I sami usano degli arpioni d’osso o di corno, lavorato in modo da ottenere una lama dritta, lunga circa un palmo, con ai lati una serie di denti rivolti all’indietro che servono a impedire che l’arpione si sfili dalla preda dopo il colpo; i nostri milites hanno verificato che un pilum, utilizzato da una mano esperta, funziona altrettanto bene.
Sono quindi cinquanta giorni che mangiamo quasi esclusivamente carne di foca, per conservare il più possibile le nostre ultime provviste; le pelli e la maggior parte del grasso le lasciamo ai sami, tanto non potremmo portarceli dietro quando non avremo più i reaka per trasportare i nostri bagagli.


Ci fermiamo cinque giorni al villaggio invernale dei sami, una decina di baracche di legno vicine alla riva del mare, non molto più accoglienti delle loro tende, per riposarci dalla lunga marcia e prepararci alla prossima tappa.
Dopo aver lasciato loro tutte le provviste e attrezzature che non possiamo portarci dietro a piedi, e dopo una lunga serie di saluti e ringraziamenti reciproci, siamo adesso in marcia verso sud contando sulle sole nostre forze. Siamo nel pieno dell’inverno, anche se il sole ha ricominciato a sorgere e tramontare tutti i giorni, e il freddo è terribile; verrebbe quasi voglia di continuare a marciare senza sostare mai perché almeno camminando ci si scalda un poco, ma naturalmente è impossibile.
Quinto Flavio ha deciso di fare turni di cinque ore di marcia, durante le quali quando tutto va bene riusciamo a percorrere dalle dieci alle dodici miglia, una sosta di circa un’ora per riposare e mangiare qualcosa, altre cinque ore di caccia e raccolta della legna da ardere e poi l’allestimento del campo, la cena, e quello che resta della notte per dormire. Il fatto di poter accendere dei veri fuochi ci permette di riscaldarci abbastanza da passare la notte senza congelare, quasi.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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