Alexandria
Chiamatemi Peregrino. Non è il mio vero nome, ma andrà benissimo ugualmente.
Quando nacqui ad Alexandria alle Kalendae di Maius dell’anno in cui erano consoli Marco Asinio Pollio e, per la seconda volta, Tito Flavio Sabino, mio padre mi chiamò Filippo. Mio padre Aristide era per metà greco-egizio di Alexandria per parte di padre e per metà greco di Atene per parte di madre e quindi scelse per me un onorato nome greco. Mia madre, siriaca per parte di padre e giudea per parte di madre, mi chiamò sempre Eliezer che, nella lingua di sua madre, significa “Dio ti aiuta”. Non so perché il suo dio di cui non si può pronunciare il nome dovrebbe aiutare proprio me, uno strano miscuglio di greci, egizi, siriaci e giudei, un civis romanus che non parla nemmeno la sua lingua.
Fatto sta che sono cresciuto ad Alexandria senza mai sapere esattamente cosa fossi: per i greci ero un barbaro, per via dell’ascendenza egizia di mio padre; per gli egizi ero un siriaco; per i siriaci ero un giudeo; per i giudei ero semplicemente un goy, un estraneo. E poi, naturalmente, ero civis romanus, ma per i romani io in realtà non ero nessuno: un plebeo provinciale, senza rango e senza parenti o contatti importanti a Roma.
E così il soprannome di Peregrino, straniero, che mi sono trovato addosso sin da quando ero bambino è diventato per me in un certo senso il mio vero nome, l’identità in cui meglio mi posso riconoscere.
Però sono nato e ho vissuto per quasi tutta la mia vita nella più grande e importante città dopo Roma stessa, il luogo in cui si concentra la cultura di tutto il mondo conosciuto. Quando si dice Alexandria non si può non pensare alla biblioteca che, nonostante i danni causati dalla flotta di Cesare ai tempi della guerra civile contro Pompeo Magno, è la più grande del mondo. Dicono che contenga qualunque libro che sia mai stato scritto o, per lo meno, tutti quelli che valeva la pena di conservare: se un libro non è conservato tra gli armaria della biblioteca, vuol dire che non merita di esistere.
Vivendo ad Alexandria, e provenendo da una famiglia non ricca ma ragionevolmente benestante, ho avuto l’opportunità di studiare con i migliori maestri del mondo nella città che è oggi al centro della nostra cultura e civiltà, un po’ come poteva esserlo Atene ai tempi di Pericle. Ho studiato di tutto, naturalmente, ma mi sono soprattutto concentrato su geometria, astrologia e geografia, materia quest’ultima che ho sempre trovato a me congeniale. Se devo essere perennemente uno straniero in terra straniera che almeno io possa avere una sufficiente cognizione della forma e delle dimensioni di questa terra.
Ed è per questo motivo che, quando ho sentito parlare del progetto per una spedizione di esplorazione e ricerca al di fuori dell’ecumene, avevo appena compiuti i ventiquattro anni, ho usato tutti i mezzi a mia disposizione, sfruttato tutte le mie conoscenze e reclamato tutti i debiti di riconoscenza pur di riuscire ad ottenere un posto su una delle due navi che sarebbero state allestite per l’impresa.
Il mio amico e collega Claudio Tolomeo riuscì ad ottenere, grazie alla sua maggiore esperienza ed età e sicuramente ai migliori contatti con personaggi importanti, il posto di astrologo e cartografo sulla Inceptio, la nave destinata alla rotta del sud, quella che ci si aspettava avrebbe fatto il viaggio più lungo ed interessante.
Grazie anche alla sua raccomandazione, io venni accettato per il ruolo analogo sulla Viatrix, la nave diretta a nord per circumnavigare la Gallia e la Germania e scoprire le terre al di là di queste. Tolomeo e io avevamo discusso a lungo sul possibile esito di questa spedizione ed eravamo d’accordo su alcuni fatti che ci sembravano indiscutibili.
In primo luogo, noi della Viatrix eravamo destinati ad andare verso il freddo, dato che avremmo navigato verso nord allontanandoci dal corso del sole, mentre lui a bordo della Inceptio sarebbe andato incontro al caldo, navigando verso sud con il sole sempre più alto sopra l’orizzonte. Quale di questi due tragitti sarebbe risultato più sgradevole era materia di congetture: c’è chi ritiene che arrivati in prossimità della linea aequinoctialis il calore diventi così estremo da uccidere chiunque e bruciare le navi; d’altra parte altri dicono che andando a nord, prima che finiscano le terre si arriva in luoghi in cui il freddo è così intenso da far congelare lo stesso Oceano.
Naturalmente nessuno di noi credeva davvero a queste esagerazioni, altrimenti non ci saremmo offerti per una missione evidentemente suicida, ma con tutte le nostre conoscenze non eravamo in grado di decidere quali e quanti sarebbero stati i rischi e disagi connessi ai nostri rispettivi itinerari.
Inoltre eravamo ragionevolmente certi che il suo viaggio sarebbe stato più lungo del mio, e per due ottimi motivi: prima di tutto, rispetto al mondo conosciuto, c’è molto più spazio vuoto o inesplorato a sud che a nord. L’ecumene arriva oltre la metà strada tra il mozzo a nord dell’orbis e la linea aequinoctialis, mentre a sud non si estende neanche fino a quest’ultima; quindi si può procedere verso sud per molte più miglia che verso nord, più del doppio in effetti.
E come se questo non bastasse l’orbis è una sfera, come dice il nome stesso, e quindi quanto più ci si avvicina alle sue estremità, tanto più l’ampiezza della sua circonferenza diminuisce: se potessimo arrivare a pochi passi dal mozzo sarebbe possibile percorrere a piedi l’intero orbis da est a ovest, o viceversa. Quindi non solo per così dire c’è molto più sud che nord, ma il sud è anche più ampio e quindi è logico pensare che sia molto più rapido arrivare in Seria passando da nord che da sud.
Dunque saremmo partiti entrambi: lui prendendo la via più lunga e passando dai paesi più caldi e probabilmente accoglienti, noi prendendo una scorciatoia che però ci avrebbe portato tra i barbari germani e fenni e nei paesi dell’eterno inverno. Quale delle due rotte dovesse risultare la più fortunata era ancora nella mente degli dèi.