Partenza


Remare è faticoso e noioso ma non è particolarmente difficile, soprattutto se non devi preoccuparti di quanto tempo ci metterai o della direzione da tenere. Il mare era, come si suol dire, liscio come l’olio e non c’era certo il rischio di sbagliare strada, dato che quella luce all’orizzonte era l’unica cosa visibile e indicava la mia destinazione.

Non ero mai salito su una barca prima d’ora – a parte un paio di pedalò in riviera, e quelli davvero non contano – ma ci misi poco a capire come funziona la faccenda: sollevi i remi fuori dall’acqua, ti sporgi in avanti, immergi le pale e ti tiri indietro con tutta la forza che riesci a mettere nelle braccia, nelle spalle e nelle reni.

Ripeti.

Ripeti ancora.

In poco più di mezz’ora avevo trovato il mio ritmo e a questo punto non avevo più bisogno di pensare a quello che stavo facendo, solo ripetere gli stessi gesti più o meno meccanicamente. Il che mi lasciava un sacco di tempo per pensare. Qualcuno ha detto che una barca a remi è una buona metafora della vita: ti sforzi per andare avanti, non vedi la destinazione verso cui stai procedendo ma hai sempre in vista i luoghi da cui stai venendo. Ogni tanto gettavo un’occhiata alle mie spalle per verificare che la luce del Vulcano fosse sempre lì, ma per il resto del tempo vedevo davanti a me il mare, il molo che si allontanava sempre più piccolo e la parete di roccia che sembrava sempre più alta, larga e indistinta; presto sarebbero scesi sotto l’orizzonte e non sarei più riuscito a scorgerli, allora sarebbe rimasto solo il mare.

E mentre guardavo allontanarsi quell’ultimo residuo di solidità e in un qualche strano senso di sicurezza, pensavo e non avendo idea di cosa mi riservasse il futuro l’unica cosa a cui potevo pensare era la mia vita passata: quarantotto anni passati in un mondo che non avrei mai più visto, e che stavano per venir sopraffatti da un numero infinito di anni in questo nuovo mondo. D’accordo, abituiamoci a chiamare le cose con il loro nome: non sono andato in un altro luogo, sono morto. E questo nuovo mondo è abbastanza evidentemente il Firmamento di cui parla il Libro del Profeta Bobby, dopotutto laggiù all’orizzonte vedo la luce del Vulcano e il Pirata Mosey me l’ha confermato; e se non lo sa lui che è qui da più di venticinque secoli non so di chi altri mi potrei fidare.

In effetti non sappiamo mai cosa ci riserva il futuro. Ad esempio, non lo sapevo certo quando mi stavo diplomando come perito tecnico all’istituto Pascal di Cesena – mi viene sempre da ridere a dirlo, ma era il secolo scorso – ed ero assolutamente convinto di volermi iscrivere a ingegneria meccanica a Bologna. Dopotutto a scuola ero sempre stato bravo in matematica, fisica e nelle materie tecniche, quindi che problema poteva esserci?

Ci ho messo poco a scoprire che l’università è molto differente dalla scuola; cambiano i ritmi, il rapporto con gli insegnanti, le dinamiche con i compagni di corso. All’Istituto Tecnico ero in una classe di ventiquattro persone, ci conoscevamo tutti benissimo, nella maggior parte dei casi ci frequentavamo anche al di fuori dell’orario scolastico; c’erano ovviamente dei gruppi, anche in contrasto tra loro, più o meno grandi, più o meno coesi, ma nell’insieme eravamo un’unica squadra. A ingegneria mi trovai in mezzo a quasi duecento matricole – e già il fatto di definirci così è un segno evidente di spersonalizzazione – io venivo da fuori, come del resto molti degli iscritti, e mi trovai a conoscere, superficialmente, poco più di una dozzina di compagni di corso. Lo stesso ovviamente valeva per i docenti che, avendo davanti a lezione una massa di più di cento persone, non potevano certo conoscere ciascuno di noi individualmente, come invece succedeva a scuola.

A questo si aggiungevano gli orari di lezione molto più frammentati e la necessità di imparare – ma nessuno ce lo aveva mai insegnato – a gestire in modo efficiente il nostro tempo. Insomma, non riuscivo assolutamente ad inserirmi, forse anche perché tutto sommato le lezioni mi entusiasmavano poco – gli argomenti erano troppo teorici, io ero partito con l’errata convinzione che ingegneria meccanica fosse una facoltà molto più vicina agli aspetti manuali e materiali – e i risultati furono totalmente deludenti: nel primo anno sono riuscito a fatica a passare due esami, mi sono iscritto al secondo anno ma a febbraio avevo già deciso di abbandonare.

Tornai a Cesena da cui in realtà non me ne ero mai andato, facevo il pendolare – un’ora di treno la mattina e una la sera – e anche questo sicuramente non mi aveva aiutato ad integrarmi con i compagni di corso. Mi era passata la voglia di studiare e mi misi a cercare lavoro; dopo un paio di lavoretti del tipo cassiere al McDonald trovai un posto come apprendista in una officina di riparazioni auto in città: il lavoro mi piaceva, la meccanica era sempre stata la mia passione, mi pagavano abbastanza bene e l’ambiente lavorativo – padrone e colleghi – era tutto sommato gradevole.

Nell’estate del 2011 sentii parlare per la prima volta della religione Pastafariana, quando diversi giornali italiani pubblicarono articoli sul caso di Niko Alm – l’austriaco che aveva finalmente vinto una battaglia durata oltre tre anni per ottenere il permesso di usare sulla patente una foto con lo scolapasta in testa – e la cosa mi incuriosì abbastanza da cercare su internet informazioni sull’argomento. Ho letto il libro di Bobby Henderson e l’ho trovato divertente, ho seguito alcuni gruppi pastafariani su Facebook, poi li ho incontrati di persona… Come ti ho detto prima, un po’ per volta sono diventato uno di loro.

All’inizio del 2015 ci fu un evento pastafariano in Piazza del Popolo, non esattamente una manifestazione politica ma qualcosa di molto simile, o così almeno credevo allora. Negli anni immediatamente precedenti alcuni gruppi di integralisti cattolici avevano promosso una curiosa forma di protesta denominata le Sentinelle in Piedi contro la proposta di legge che avrebbe dovuto istituire il reato di omofobia: gruppi di persone si radunavano in una piazza disponendosi ordinatamente a due metri l’una dall’altra e stavano lì, per un’ora, a leggere un libro. Un bellissimo esempio di protesta nonviolenta utilizzata per proteggere i diritti dei violenti.

Quando le Sentinelle tornarono nelle piazze contro la nuova proposta di legge sulle coppie di fatto, poi snaturata e trasformata in legge sulle coppie omosessuali, i pastafariani italiani risposero con una loro iniziativa, quella delle Tagliatelle in Piedi; gruppi di pastafariani si trovavano nelle piazze di tutta Italia, in maniera studiatamente disordinata e caotica, per distribuire piatti di tagliatelle ai passanti anche loro a sostegno della famiglia tradizionale – naturalmente nell’accezione pastafariana del termine: una famiglia formata da un numero qualsiasi di persone di qualsiasi genere od orientamento sessuale che si rispettano, si vogliono bene e stanno insieme finché si vogliono bene.

Quella mattina ero lì anch’io, benda sull’occhio e scolapasta in testa. Davo una mano con gli altri pirati distribuendo piatti di tagliatelle, mangiando, bevendo e in generale cazzeggiando – l’importante dopotutto era essere in tanti, fare numero e divertirsi. Ed eravamo davvero in tanti: l’evento era stato inserito all’interno di una manifestazione organizzata da diverse associazioni LGBT+ e la piazza era praticamente piena di gente.

Come da copione a un certo momento sono arrivati i provocatori, una ventina di neofascisti con striscione, fumogeni da stadio e saluti romani; sono entrati in piazza indisturbati mentre la polizia che sorvegliava la nostra pericolosa manifestazione stava solertemente guardando dall’altra parte, e hanno fatto il loro show accompagnati solo da un po’ di fischi; ed è stato proprio mentre ci scansavamo per lasciarli passare che ho visto Monica in mezzo alla folla.

Ci conoscevamo sin da bambini, andavamo a scuola insieme e non eravamo neanche particolarmente amici; l’avevo persa di vista alla fine delle medie e anche dopo essere tornato a Cesena dopo l’esperienza fallimentare dell’università non ci eravamo mai rivisti, evidentemente frequentavamo ambienti differenti e adesso, dopo tanti anni, la incontravo qui in piazza, entrambi vestiti da pirati.

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