Ricordi


Ti dicevo prima che remare in queste condizioni – mare calmo e nessun rischio di sbagliare direzione – non richiede particolare attenzione e ti lascia tempo per pensare ai fatti tuoi.

Però è faticoso, e mette fame.

Il sacco delle provviste era proprio lì dove Mosey aveva detto che l’avrei trovato. Ho tirato in barca i remi e ho provato a guardarci dentro: c’erano due contenitori di plastica, di quelli a tenuta ermetica che si usano per tenere gli avanzi in frigorifero, un paio di lattine e nient’altro; evidentemente il viaggio non sarebbe durato poi molto, se i rifornimenti erano calcolati per bastare per tutta la traversata fino al Vulcano.

A un esame più accurato ho constatato che una delle scatole conteneva pasta – orecchiette? – al pesto, mentre l’altra era piena di tagliatelle al ragù. Cosa curiosa, la prima era fredda al tatto, mentre la seconda era tiepida, come se le tagliatelle fossero state appena cotte e condite. Le due lattine invece erano entrambe della mia birra preferita e fredde ghiacciate. A quanto pareva le leggi della termodinamica si tenevano alla larga dall’interno di quel sacco, ma chi sono io per lamentarmi?

Nessuna traccia di posate, bicchieri o altri accessori. Non sono un tipo particolarmente schizzinoso e quindi ho tranquillamente mangiato con le mani le tagliatelle – mi sembrava sciocco lasciare che si raffreddassero – e ho scolato una delle due birre. Ho infilato di nuovo tutto nel sacco – anche i contenitori vuoti perché non avevo altro posto in cui metterli – l’ho richiuso e rimesso al suo posto.

Rapido controllo: la luce del Vulcano era sempre laggiù dietro di me, apparentemente sempre alla stessa altezza sull’orizzonte. Ma c’è poi davvero un orizzonte qui? Quando ho cominciato la traversata ho notato una cosa strana di cui non ti ho parlato prima: man mano che mi allontanavo dal molo l’ho visto diventare sempre più piccolo e indistinto – come ti dicevo la luce qui si comporta in maniera curiosa – ma non l’ho visto scendere sotto l’orizzonte. Sulla Terra, in condizioni analoghe, mi sarei aspettato che un molo alto meno di un metro sulla superficie dell’acqua sparisse dalla vista sotto l’orizzonte a una distanza di pochi chilometri, qui invece dopo aver remato per un paio d’ore lo vedevo ancora, lontano e nebuloso, ma sempre alla stessa altezza; quindi il Firmamento è piatto o, se è sferico, ha un raggio enormemente superiore a quello della Terra. Però avvicinandomi al Vulcano la sua sommità dovrebbe comunque apparire sempre più alta, anche senza considerare la curvatura terrestre, per una semplice legge geometrica. Se vedevo la luce sempre alla stessa altezza vuol dire che non mi stavo avvicinando, o così poco da non rendere la differenza percepibile.

Quindi la mia destinazione era lontanissima.

Panico.

OK, ragioniamo con calma: sono qui, su una barchetta, in mezzo a un mare sconosciuto, diretto verso una destinazione che scopro essere incredibilmente lontana e tutte le mie provviste si riducono a un piatto di pasta fredda e una lattina di birra; cosa potrebbe andare storto?

Il paradosso della mia situazione è che la risposta è “niente”. Non c’era niente che potesse andare storto: non posso smarrire la strada, perché la destinazione è visibile e lo sarà sempre; non posso morire di fame o di sete perché sono già morto – al massimo potrei sentire il disagio della fame e della sete, ma noi umani siamo molto bravi a sopportare le sensazioni sgradevoli, soprattutto quando non abbiamo alternative. Per lo stesso motivo non posso neanche annegare – se la barca si rovescia posso permettermi di imparare a nuotare, o forse camminare sul fondo del mare fino al Vulcano se necessario .

Ho rimesso in acqua i remi e ho ricominciato a vogare.


Dopo quel primo incontro casuale in Piazza del Popolo, Monica e io cominciammo a frequentarci e nel giro di pochi mesi eravamo diventati coppia fissa.

A prima vista eravamo la coppia peggio assortita che si potesse immaginare: lei era una morettina di un metro e cinquantacinque per cinquanta chili con le tette grandi, teoricamente l’esatto opposto della mia donna ideale, mentre io ero alto un metro e novanta con la corporatura di un giocatore di rugby – ero? Attualmente penso che il mio corpo sia ridotto a una manciata di cenere sparsa da qualche parte sulle colline del Cesenate, ma d’altra parte sono anche qui, nel Firmamento, e le mani e le braccia con cui sto remando su questa barchetta sembrano assolutamente reali e fisiche e sono indubbiamente le mie; – io ero un ingegnere mancato con la passione delle macchine e con un lavoro da meccanico in un’autofficina, mentre lei si era diplomata al liceo scientifico ed era infermiera all’Ospedale Bufalini. Insomma, eravamo quanto più diversi si possa immaginare sia fisicamente che per formazione e interessi, eppure trovammo ugualmente delle basi su cui sviluppare una vita in comune.

Abitavamo da un paio d’anni in un appartamento in affitto nella zona est di Cesena quando si presentò la grande occasione che cambiò le nostre vite. Una ventina d’anni prima era arrivata al culmine la moda degli agriturismi che era iniziata alla fine degli anni ottanta, favorita da alcune esenzioni sia in campo fiscale che normativo, e le colline del Cesenate si erano popolate di piccole “aziende agrituristiche”, in pratica trattorie con annessa locanda, prevalentemente a gestione familiare, che nella maggior parte dei casi si mantenevano a fatica con i turisti di passaggio. Nel decennio successivo la bolla si sgonfiò: i figli non erano interessati a prendere il posto dei genitori nell’azienda di famiglia, l’interesse dei turisti era diminuito, i costi e le tasse aumentavano; alcune aziende chiusero i battenti limitando le perdite, i più testardi insisterono e più di uno andò in fallimento.

Il vecchio Fabbri dell’agriturismo “Ai Pini” di Valdinoce fu uno di quelli che decisero in tempo di tirarsi indietro: la moglie aveva problemi di salute, i due figli volevano continuare a studiare invece di impegnarsi a tempo pieno nella gestione dell’azienda, gli incassi coprivano a malapena le spese; licenziò i dipendenti, chiuse l’azienda, mise in vendita la proprietà e si trasferì a Cesena con la famiglia.

Conoscevo bene il posto, perché Fabbri era un vecchio conoscente di mio padre e ogni tanto andavamo a mangiare nella sua trattoria ci piaceva molto, così ne parlai con Monica e andammo insieme a visitare la tenuta. Facemmo i nostri conti e, con un sostanzioso aiuto economico da parte delle nostre rispettive famiglie, e a dicembre del 2018 eravamo proprietari dell’ex Azienda Agrituristica Ai Pini, da noi immediatamente ribattezzata La Casa, con un mutuo di vent’anni che ci costava più dell’affitto che pagavamo prima.

Il comune di Meldola si stende sulle colline tra Forlì e Cesena e arriva fino a quasi cinquecento metri di quota, con una popolazione di poco meno di diecimila anime; Valdinoce è una piccola frazione a circa un chilometro (tutto in salita) dal capoluogo e che prima del nostro arrivo contava la bellezza di 26 abitanti. Io e Monica non abbiamo ma amato i luoghi troppo affollati, meglio così perché la Casa era altri trecento metri fuori dall’abitato. In origine era stata probabilmente una fattoria, ma i precedenti proprietari l’avevano completamente ristrutturata e l’unica parte più vecchia di cinquant’anni era una stalla con annesso fienile al di là dell’aia che era stata riadattata in tempi più recenti a magazzino.

Detto così potrebbe sembrare che fossimo andati a vivere in un luogo sperduto tra i monti ma in realtà eravamo a venti chilometri sia da Forlì che da Cesena, mezz’ora di macchina al massimo; la Casa era grande: sette camere, tre bagni, la sala e un’enorme cucina e intorno ad essa avevamo quasi otto ettari tra boschi, campi e frutteto.

Un sacco di spazio, forse persino troppo.

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