Capitolo 2


Il gallo – Il Legionario

Arelate, a.d. III Kal. Apr. 872 AUC

Lucio Iulio Enobarbo non era un uomo soddisfatto.
Negli ultimi mesi, mentre suo padre era impegnatissimo a seguire gli ultimi lavori al nuovo tempio, aveva avuto un po’ di respiro; adesso, a inaugurazione avvenuta, il vecchio aveva ricominciato a insistere sulla solita questione.
Non è che Lucio fosse contrario all’idea in sé di allontanarsi da casa, tutt’altro, ma quello che suo padre gli voleva imporre non era un viaggio: a diciassette anni, l’idea di entrare nelle legioni come ufficiale e restarci almeno per i prossimi cinque anni gli sembrava equivalente a una condanna all’esilio.
Cinque anni, praticamente una vita intera! Cinque anni sul Rhenus, al confine con la Germania, al comando di una cohors di auxiliares; e a imparare, come diceva suo padre, a vivere come un vero romano, cittadino e miles.
Il problema è che Lucio non voleva affatto imparare a vivere come un vero romano. E non voleva andarsene per cinque anni da Arelate. E, d’altra parte, non poteva neanche opporsi apertamente a suo padre.
La verità era che Lucio odiava Roma, e tutto ciò che ai suoi occhi quella città rappresentava.
Odiava l’amministrazione provinciale romana, che sembrava non avere altro scopo e funzione che imporre sempre nuove tasse.
Odiava le legioni di Roma, che difendevano il paese da nemici inesistenti, e servivano in realtà soltanto a reprimere ogni tentativo della popolazione di far sentire la sua voce.
Odiava l’idea che i suoi concittadini dovessero pagare una tassa a Roma per poter tagliare la legna delle loro foreste, o per avere l’autorizzazione a ormeggiare le loro navi nel loro porto, o per usare l’acqua del loro acquedotto, raccolta dalle fonti della loro terra.
Odiava soprattutto il fatto di essere considerato un romano! Lui, discendente di un popolo che viveva qui da centinaia di anni prima che arrivassero i romani, avrebbe forse dovuto essere fiero di essere un civis romanus?
E Lucio odiava Tito Mario Prisco. Ma questo era facile: dal suo punto di vista il proconsole era, in ordine decrescente di importanza, un romano, un farabutto e un idiota.
Lucio non voleva essere un romano; Lucio era un gallo, e voleva esserlo in una Gallia libera dalla dominazione romana.
Ma i tempi di Vercingetorix erano ormai passati da più di centocinquanta anni, la Gallia era ormai definitivamente pacificata sotto il controllo di Roma, e i galli non avevano nessuna intenzione di prendere le armi per riconquistare un’indipendenza di cui probabilmente non avrebbero saputo più cosa fare.
E così Lucio poteva anche sognare di poter essere un giorno un gallo libero in una Gallia di nuovo indipendente, ma a condividere il suo sogno erano solo una manciata di suoi amici, tutti giovani e tutti romani come lui.
Comunque Lucio non poteva andarsene da Arelate per cinque anni. Non poteva lasciare per tanto tempo Annia Vera, e non poteva certamente portarla con sé.
Non poteva neanche sposarla prima di partire, anche su questo suo padre era irremovibile: Vera era solo la figlia di un modesto bottegaio, naturalmente cittadino romano, ma troppo al di sotto della loro classe sociale per anche solo pensare a un matrimonio.
E Lucio non poteva sfidare apertamente suo padre. Se avesse rifiutato di arruolarsi, o minacciato di sposare Annia Vera senza il suo consenso, sarebbero state parole vuote, e lo sapevano benissimo entrambi.
Lucio aveva appena compiuto diciassette anni e, per dirla schietta, non sapeva fare nulla. Non aveva la minima competenza in nessuna attività pratica, la sua unica possibilità di guadagnarsi autonomamente da vivere sarebbe stato di andare a fare il bracciante a ore in una villa rustica.
Aveva persino tentato di far cambiare idea a suo padre, o almeno di trovare una qualche forma di compromesso tra le loro posizioni, mediante l’intercessione di sua madre; ma Iulia Artoria era una donna dalla personalità insignificante, totalmente soggetta al marito, e la sola idea di opporsi ai suoi progetti per il figlio le aveva quasi procurato una crisi isterica.


– Allora Lucio, hai pensato a quello che ti ho detto ieri? – Erano entrambi nel tablinium della domus, abbastanza grande, ma arredato in maniera spartana: un tavolo da lavoro, un’arca alla parete di destra e gli armaria che coprivano quella di sinistra; il padre era seduto sulla sua cathedra, Lucio su un più semplice sgabello.
– Sì, padre, ci ho pensato a lungo, e continuo a non essere contento della tua scelta. – Rispose Lucio, con tono di sfida appena velata: – Non capisco perché dovrei sprecare cinque o più anni della mia vita al servizio delle legioni. Non potrei impiegare questo tempo in maniera migliore, continuando a studiare greco e retorica?
– Non si tratta di sprecare cinque anni Lucio, si tratta di costruire il tuo futuro! Sai bene che per un giovane dell’ordo equestris l’unico modo per accedere alle magistrature passa per la carriera militare. Io non ne ho avuto la possibilità, ho dovuto occuparmi degli affari di famiglia, e guardami: ho trentotto anni, sono la persona più ricca di Arelate, e il massimo a cui posso aspirare è di diventare decurio. Alla mia età non posso più pensare di iniziare una carriera militare e politica ma tu, mio figlio, quando avrai la mia età potresti sedere nel Senato di Roma.
– Che vadano all’Orco le magistrature e tutti i magistrati e senatori romani. Io sono un gallo, non un romano! – Sbottò Lucio.
– Stai dicendo un sacco di sciocchezze: – Lo riprese il padre – il nonno di tuo nonno si guadagnò la cittadinanza romana servendo nell’esercito di Cesare durante la guerra civile. Tu sei un romano, come io sono un romano, portiamo il nome della gens Iulia e possiamo solo esserne orgogliosi.
– Il nonno di mio nonno avrebbe fatto meglio a combattere con l’esercito di Vercingetorix contro Cesare, invece che tradire il suo stesso popolo vendendosi a Roma!
– Ti proibisco di parlarmi con questo tono! – Gli urlò Egidio che stava cominciando ad arrabbiarsi sul serio: – Adesso basta! Hai compiuto diciassette anni, e hai quindi l’età legale per entrare nelle legioni; dopo i Saturnalia, ti presenterai a Narbo al dilectator per arruolarti. Ho già preso accordi per farti entrare come praefectus cohortis degli auxiliares della seconda Cohors Vasconorum Hispanorum Equitata. Fra cinque anni mi aspetto che tu ritorni con quantomeno il grado di praefectus alae e questo ti aprirà la strada per la carriera politica e, se gli dei lo vorranno, forse vivrò abbastanza per vederti senatore. Questo è quello che ti dico di fare, e questo è quello che farai. – Concluse Egidio, alzandosi dalla cathedra e uscendo dalla stanza senza aspettare una risposta.


Nel pomeriggio, verso l’ora nona, Lucio uscì di casa per recarsi alla Popina del Legionario, il luogo dove si incontrava abitualmente con gli amici.
Quella del Legionario era una taverna nella zona nordorientale della città, vicina all’imbocco del ponte sul fiume. L’insegna era costituita da un vecchio scutum, lo scudo rettangolare incurvato delle legioni romane, appeso alla parete sopra la porta; nonostante fosse un po’ sbiadito per l’esposizione alle intemperie, si potevano ancora distinguere i colori della cohors in cui aveva militato Corax, il proprietario del locale.
L’interno della popina era un unico locale di forse quattro passi per sei, immerso nella penombra e pieno di fumo, l’oscurità appena smorzata dal focolare acceso sulla parete di fondo e da poche lucerne appese alle travi del soffitto; Lucio si sedette al tavolo già occupato dai suoi amici, che stavano mangiando e bevendo allegramente.
Una delle caratteristiche del locale era il fatto che non eri tu a decidere cosa mangiare o bere: entravi, ti mettevi a sedere, e prendevi quello che il padrone ti portava; niente smancerie del tipo “portami il tuo vino migliore”, ci pensava Corax. Tutti gli avventori lo chiamavano semplicemente così, con il soprannome dovuto alla sua zazzera di capelli corvini e al suo naso che sembrava il rostro di una nave da guerra; il soprannome gli stava così bene che erano ben pochi quelli che ricordavano il suo vero nome. Se lui riteneva che tu fossi un cliente da vino buono, ti portava il migliore che aveva, altrimenti ti dovevi accontentare di quello che arrivava. E la stessa regola valeva per il cibo.
Infatti, nel giro di pochi minuti, arrivò al tavolo Corax in persona: un uomo non molto alto ma robusto, sulla sessantina, e con ancora i capelli nerissimi, portando una caraffa di un discreto vino della valle del Rhodanus e una ciotola di stufato di montone con ceci; sbatté il tutto sul tavolo davanti a Lucio e se ne tornò dietro al bancone senza dire una parola. Era un tipo così, da prendere o lasciare.
La popina non era molto affollata a quest’ora del pomeriggio: due uomini giocavano a dadi sul tavolo di fondo vicino al fuoco, e un altro tavolo era occupato da un gruppo di giovani impegnati a bere seriamente; non erano ancora così ubriachi da finire sotto il tavolo ma, a giudicare da come cantavano, dovevano essere già a buon punto.
Proprio mentre Lucio cominciava ad affrontare lo stufato, stavano iniziando un nuovo canto, con voci orribilmente stonate:

Gaudeamus igitur
Iuvenes dum sumus.
Post iucundam iuventutem
Post molestam senectutem
Nos habebit humus.2

– Mi piacciono questi canti da osteria, – commentò ironico Marco, uno degli amici seduti al tavolo – “Divertiamoci adesso finché siamo giovani, perché poi moriremo tutti”. Allegro, non c’è che dire…
– Proprio così, – ribadì Tiberio – e questo è davvero uno dei più allegri. Li hai mai sentiti cantare l’inno a Fortuna?
– Guarda Tiberio, – intervenne Lucio con tono cupo – oggi sono così di cattivo umore che anche quello mi sembrerebbe allegro.
– Ancora una discussione con tuo padre?
– Se si può chiamare discussione. Lui ordina, io devo ubbidire, non c’è nessuno spazio per discutere. È sempre la solita solfa: entrare nelle legioni, diventare un grande guerriero, fare carriera in politica…
– Non esistono grandi guerrieri, – lo interruppe Corax che stava servendo altro vino al tavolo di fianco – la guerra non fa grande nessuno, la guerra fa solo morti!
– … e se lo dici tu che di guerra te ne intendi… – Aggiunse Tito con tono un po’ canzonatorio.
– Per le palle di Marte, me ne intendo sì, bamboccio! – Era raro riuscire ad coinvolgere Corax in una discussione: – Sono entrato sotto le Aquile come miles a diciotto anni, optio a ventidue, centurione a trenta, pilus prior a trentasei. Ho visto morire più di un terzo dei miei compagni, per le ferite in battaglia o per malattia. Sono stato congedato con honesta missio a quarantacinque anni, e tutto quello che ho ottenuto è bastato appena a comprare questo squallido buco, per portar da bere a degli ubriaconi come voi.
– Ma il nostro Lucio appartiene all’ordo equestris, – insistette Tiberio – entrerebbe direttamente nelle legioni come praefectus, un incarico facile…
– Facile questi due coleones! Esistono tre tipi di ufficiali nelle legioni. Ci sono gli scansafatiche che, come te, pensano che il loro grado sia una sinecura, un posto da occupare per qualche anno per poi andare a fare cose più interessanti; di solito finiscono male: i loro sottoposti non li prendono sul serio e quindi la loro carriera dipende dalla capacità dei loro centurioni, ma un centurione capace e intelligente scappa appena possibile da un praefectus pigro, e quindi a lui rimarranno solo i peggiori.
– Sì, ma…
– E poi ci sono gli stolti che pensano davvero di comandare, e non si rendono conto che un ufficialetto appena nominato che arriva dando ordini a destra e sinistra a dei centurioni di carriera, con magari quindici anni di servizio alle spalle, riesce solo a farsi odiare.
– Se la metti così, sembrerebbe che qualsiasi cosa uno faccia sia sbagliata.
– Già, di solito è proprio così. – Commentò acido il vecchio legionario: – In realtà, invece di fregarsene o di cercare di insegnare il mestiere a chi ha molta più esperienza di lui, un giovane praefectus può scegliere di imparare a essere un miles. È molto più difficile e faticoso, ma è l’unica strada che puoi seguire se vuoi diventare un vero ufficiale, essere rispettato dai tuoi sottoposti e uscire dalle legioni con tutte le ossa al loro posto.
– Certo, Corax, – commentò Tito – che tu sai come fare per incoraggiare un uomo indeciso!
– Per Hercules, non intendo incoraggiare né scoraggiare nessuno! Il vostro amico dovrà decidere da sé cosa fare della sua vita, mi sono solo limitato a dargli un avvertimento. E adesso, – concluse abbandonando bruscamente il gruppetto – è meglio se torno al mio lavoro: il vino non si serve da solo, sapete?
I quattro finirono di mangiare e bere in silenzio, finché Lucio non si alzò: – Si sta facendo tardi, io vado. Ci vediamo domani sera alla taberna dell’erma. Valete. – E se ne andò verso casa, rimuginando sui consigli del vecchio centurione.


2 Divertiamoci adesso finché siamo giovani. Dopo la giocosa giovinezza, dopo la fastidiosa vecchiaia, ci avrà la terra.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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