Capitolo 4


Il proconsole – Il segretario – Cospirazione

Narbo, prid. Id. Apr. 872 AUC

Tito Mario Prisco, proconsole per la provincia della Gallia Narbonensis, era un uomo metodico e preciso. O almeno, lui si definiva metodico; i suoi sottoposti preferivano in genere definirlo un maniaco dell’ordine, o anche un maledetto pignolo, naturalmente solo quando lui non poteva sentirli.
I servi che tenevano pulita e ordinata la villa urbana che aveva eletto a sua residenza erano continuamente impegnati a togliere minuscole macchie di sporco dai pavimenti a mosaico, spolverare e riordinare almeno una volta al giorno tutti i libri negli armaria del suo tablinium, verificare che mobili e suppellettili fossero sempre esattamente nel posto assegnato a ciascuno di essi.
Le aiuole e le siepi del grande hortus conclusus nel peristylium della villa erano disposte in maniera geometricamente perfetta, e curate quotidianamente da non meno di quattro topiarii: sarebbero stati guai seri se Mario Prisco avesse trovato anche una sola foglia secca sui sentieri accuratamente inghiaiati e perfettamente rastrellati.
Il proconsole, insomma, credeva nell’ordine e nella precisione; ordine che si estendeva anche alla sfera delle idee: Mario Prisco non conosceva vie di mezzo tra bianco e nero, il grigio era un’aberrazione. Qualsiasi cosa che occupasse la sua attenzione era buona o cattiva, fas o nefas.
Ed era basandosi su questi principi, gli unici per lui concepibili, che da più di tre anni governava la Gallia Narbonensis, e gli abitanti della Gallia cominciavano veramente a non poterne più di lui.
Da quando, negli anni successivi alla morte di Ottaviano, il Senato aveva riacquistato il controllo su tutte le province romane, era sorto il problema della scarsità di promagistrati: dopotutto Roma produceva un numero limitato di ex consoli e praetores ogni anno ma, con l’aumento del numero delle province, l’amministrazione ne richiedeva sempre di più.
E così, prima di arrivare ad essere costretti a nominare come proconsoli i loro colleghi ottuagenari, i senatori nel 734 AUC approvarono un senatoconsulto che prolungava il mandato dei promagistrati a tre anni e poi, nel 739, votarono un’ulteriore estensione fino a cinque anni. Questa decisione aveva cambiato in maniera significativa il ruolo dei proconsoli.
Con un mandato annuale il magistrato aveva a malapena il tempo per insediarsi, guardarsi intorno, giudicare qualche arbitrato, arricchirsi quanto poteva nei limiti del suo personale concetto di decenza, e prepararsi per tornare a Roma.
I veri compiti amministrativi erano di fatto delegati a funzionari, più o meno permanenti, più o meno competenti, mentre il proconsole si limitava al massimo a imporre delle linee generali nel governo della provincia.
Cinque anni erano invece un periodo molto più lungo. Un proconsole aveva adesso tutto il tempo di imparare a conoscere la sua provincia e i suoi abitanti. Aveva il tempo per programmare delle politiche a medio o lungo termine, non era più costretto a vendere favori al migliore offerente, ma poteva costruirsi una efficiente struttura di clientes e, in definitiva, guadagnare anche molto più di prima. Non era raro il caso di proconsoli che, terminato il mandato, si ritiravano a vita privata nella provincia che avevano amministrato e vivevano di rendita fino alla fine dei loro giorni, sfruttando la rete di contatti costruita in quei cinque anni.
Il rovescio della medaglia era costituito dal fatto che, in cinque anni, un cattivo proconsole aveva tutto il tempo per farsi odiare o disprezzare dalla popolazione.
D’altra parte, se l’opinione di Lucio Iulio Enobarbo sulla mancanza di intelligenza del proconsole poteva essere almeno in parte giustificata, il giudizio sulla sua onestà era forse eccessivo: Tito Mario Prisco non era un farabutto, o almeno non più della maggior parte dei governatori provinciali. In linea di massima si considerava un leale servitore dello Stato: non era il tipo da imporre dazi arbitrari per il proprio tornaconto o da rubare apertamente i beni dell’annona.
E si fidava ciecamente del suo segretario. La qualifica ufficiale del liberto Citrio Pio era di “responsabile del protocollo”. In pratica svolgeva per Mario Prisco la mansione di nomenclator, in quanto conosceva tutti e sapeva sempre tutto di tutti, di segretario personale e, occasionalmente, di interprete.
In quanto segretario era a lui che si rivolgevano quanti dovevano presentare al proconsole una supplica, una richiesta o proporre un contratto all’amministrazione provinciale. Tutti sapevano, a Narbo come nel resto della provincia, che per ottenere qualcosa dal proconsole si doveva passare per il suo segretario, e che per ottenere qualcosa da Citrio era necessario pagare.
Citrio era nato schiavo in Syria, portato a Roma all’età di sedici anni e venduto all’allora senatore Mario Prisco. Dotato di un’ottima memoria e di un’intelligenza vivace, aveva fatto rapidamente carriera, prima come nomenclator del senatore, poi come scriba e infine come segretario. A sedici anni, quando era arrivato a Roma, parlava già fluentemente tre lingue: greco, siriaco e latino; a queste aveva rapidamente aggiunto il persiano e l’egizio e, nei tre anni trascorsi in Gallia, aveva allungato la lista con almeno quattro delle lingue e dialetti locali, di galli e hispanici.
Aveva ricevuto la manumissio subito prima della partenza del suo padrone, ora patronus, per il proconsolato; ora, a soli trentaquattro anni, era un uomo libero e la sua aspirazione era di mettere da parte abbastanza denaro da potersi ritirare a vita privata alla fine del mandato di Mario Prisco.
– … e questo è il decreto per l’appalto di sfruttamento delle foreste a sud di Vindomagus; Annio Camars ha sicuramente i migliori requisiti per l’incarico. – Citrio Pio passò l’ultimo documento al proconsole che lo approvò con il suo sigillo dopo avergli dato soltanto un’occhiata distratta. Annio Camars aveva dimostrato nel modo migliore a Citrio di essere qualificato per l’appalto, pagandogli una tangente di cinquantamila sesterzi.
– Abbiamo finito per oggi, Citrio?
– Quasi, domine. – Aggiunse esitante il segretario: – C’è ancora da trattare una faccenda un po’ delicata: abbiamo ricevuto una segnalazione da Aulo Pompeio, uno dei decuriones della Colonia Iulia Paterna Arelatensium Sextanorum, riguardo un possibile caso di sedizione…
– Sedizione? Nella mia provincia? – Il proconsole si era fatto improvvisamente molto attento.
– In realtà non saprei proprio dire, proconsole. La denuncia parla di un sodalizio costituito da meno di una dozzina di persone, che pare si facciano chiamare i Figli della Gallia e parlino di liberare la Gallia dal dominio di Roma. – Il tono di voce di Citrio mostrava tutta la sua perplessità sull’argomento.
– Detta così sembrerebbe quasi uno scherzo, una sciocchezza che potrebbe risolversi in niente; ma un’accusa di attività sediziosa è una cosa molto seria: facciamoli arrestare tutti, poi si vedrà.
– Come vuoi, domine, ma potrebbe non essere una buona idea. Pare che siano coinvolti esponenti di alcune delle famiglie più in vista della colonia: se li arresti tutti e poi la faccenda dovesse risultare inconsistente, ti ritroveresti in una situazione a dir poco imbarazzante.
– E quindi tu cosa mi consiglieresti di fare, Citrio?
– Forse la soluzione migliore sarebbe prendere tempo e osservare: infiltriamo nel loro gruppo qualcuno di fidato e cerchiamo di capire se ci sono davvero gli estremi per procedere a un’incriminazione.
– D’accordo, faremo così; occupati tu della cosa. Hai già in mente qualcuno che possa fare da informatore?
– Non ancora, domine, ma sono sicuro che potrò trovare qualcuno di adatto a questo compito. – Concluse Citrio.

Arelate, prid. Id. Apr. 872 AUC

Era il primo giorno dei Cerealia, la grande festa in onore della dea Ceres, e quindi la taberna vestiaria oggi era chiusa e Annio Vero si era recato al tempio dell’Alma Mater per assistere alla cerimonia.
Approfittando dell’occasione Vera, Lucio e Marco si trovavano all’interno della taberna: con la porta che dava sulla strada sbarrata e l’illuminazione affidata a una lucerna, i tre stavano discutendo dei piani e del futuro dei Figli della Gallia.
– Io vi dico, – diceva Vera – e non per la prima volta, che dobbiamo aprire il più possibile il nostro gruppo alle masse popolari. Non possiamo sostenere di voler combattere la tirannia di Roma e poi continuare a comportarci come una elite, disprezzando la gente reale tutto intorno a noi!
– È una follia, Vera, – ritorse Marco – tu vorresti coinvolgere direttamente i vilici e i peregrini, ma facendo questo avremmo di fatto la certezza di tirare dentro anche chissà quante spie. Come possiamo sapere chi di questi ci venderebbe al proconsole per quattro assi?
– È vero, ma si tratta di un rischio che dobbiamo correre. Rimanendo in pochi come siamo ora il pericolo di essere individuati è sicuramente minore, per quanto la possibilità esista comunque, ma le nostre capacità di far progredire la causa ne risultano drasticamente limitate. Dovremmo trovare un modo di allargare la nostra organizzazione riducendo al minimo il rischio costituito da eventuali delatori.
– E come? Più gente entra, maggiore diventa il pericolo. – Fece notare Lucio: – E il giorno che facessimo entrare la persona sbagliata verremmo arrestati tutti.
– Non è detto… – Vera stava pensando mentre parlava: – Ad esempio, se organizzassimo i nuovi arrivati in tanti piccoli gruppi, e trovassimo il modo di impedire ai membri di ciascun gruppo di conoscere quelli degli altri…
– In questo modo però, – obiettò Marco – ciascun gruppo sarebbe lasciato a se stesso, non ci potrebbe più essere una linea d’azione unitaria; perderesti tutti i vantaggi derivanti dal numero.
– Forse si potrebbe mantenere una forma limitata di contatto tra i gruppi? Che so, una riunione periodica dei capi?
– È troppo complicato, diventerebbe una struttura così rigida da essere ingestibile. E comunque, – tagliò corto Lucio – io rimango contrario all’idea di base di far entrare nell’organizzazione vilici e peregrini: si tratta di persone che non hanno né una sufficiente preparazione né le necessarie basi culturali per partecipare all’organizzazione di una rivolta. Sono d’accordo sul fatto di contattarli e cercare sostenitori tra di loro, ma non credo proprio che dovremmo invitarli a discutere insieme a noi le decisioni strategiche.
– E io ti ripeto che sei un maledetto elitarista!
– Può darsi, Vera, – le rispose Lucio controllandosi a stento – ma anche gli altri sono d’accordo con me. Su questo argomento tu sei in minoranza.
– Bene, allora tenetevela la vostra maggioranza! Se la Maggioranza deve ragionare in questo modo, sono ben contenta di essere la Minoranza dei Figli della Gallia. E adesso, tutti e due, fuori di qui. – E li cacciò fuori dalla taberna senza tante cerimonie.

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