Capitolo 30


Oceanica, a.d. III Non. Mart. 875 AUC

Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
Come previsto abbiamo cominciato l’esplorazione della costa andando verso nord e, per farla breve, abbiamo scoperto che questa è effettivamente un’isola, ma è grandissima. La costa si estende per oltre mille miglia da sud a nord e, nel suo punto più largo, l’isola misura non meno di trecento miglia. Secondo i calcoli di Claudio Tolomeo la sua superficie è almeno una volta e mezzo di quella dell’intera Italia, anche comprendendo la Gallia Cisalpina e la Sicilia.
Ci sono voluti cinquanta giorni per percorrere le coste di tutta l’isola, coprendo una distanza di quasi tremila miglia; l’esplorazione è stata rallentata dal fatto che questa terra è particolarmente povera di selvaggina. Abbondano gli uccelli, compreso il mostruoso struzzo gigante che abbiamo incontrato nella prima battuta di caccia, e il mare brulica di pesci.
In tutti questi giorni abbiamo però visto un solo quadrupede più grande di una volpe, una specie di ippopotamo nano: lungo sette piedi e alto tre è molto più piccolo di quelli che abbondano lungo il corso del Nilo; ne abbiamo abbattuti due ed è risultato che pesavano poco più di cinquecento librae ciascuno.
Le coste occidentali di Oceanica, il nome che abbiamo dato a quest’isola, sono coperte da una vegetazione rigogliosa e a tratti impenetrabile, mentre le coste orientali sono più brulle, in alcuni punti decisamente aride. Al centro si estende una catena montuosa che copre quasi tutta la sua lunghezza i cui picchi, secondo la stima fatta da Claudio Tolomeo, vanno circa dai cinque ai diecimila piedi di altezza.
Dopo aver completato il circuito dell’isola, tornando al punto del nostro primo approdo, abbiamo deciso di spostare il nostro campo principale in un luogo vicino alla sua estremità nord. Qui si apre l’unico grande golfo della costa orientale, un’insenatura di circa quindici miglia di larghezza e lunga il doppio, in fondo alla quale si trova un’isoletta lunga meno di due miglia a poca distanza dalla terraferma.
Questo golfo è un porto naturale perfetto, riparato dai venti di Oceano, con molte spiagge che consentono un facile approdo e ricco d’acqua dolce dato che vi sfociano non meno di sette diversi fiumi. È un luogo incredibilmente bello, circondato da fitte foreste e da praterie e qui abbiamo stabilito il nostro castrum.
Claudio Tolomeo ritiene che dovremmo fermarci qui per almeno un mese, in modo da evitare di arrivare nei mari più a nord prima della fine della cattiva stagione. Naturalmente ha ragione: anche se qui sembra di essere in primavera avanzata, in realtà siamo appena all’inizio di Martius; al nord è ancora inverno e i mari non sono navigabili.
Inoltre abbiamo il problema delle provviste: non sappiamo a che distanza siamo dalle coste dell’Africa, quasi sicuramente meno di mille miglia, forse solo cinquecento, ma non possiamo azzardarci a partire verso ovest senza avere a bordo cibo per almeno una ventina di giorni, e ci vorrà molto tempo a cacciare e affumicare abbastanza carne, vista la scarsità di selvaggina di grossa taglia.

L’equipaggio della Inceptio si era stabilito nel nuovo castrum da dodici giorni quando cominciò l’invasione.
Il primo a notare qualcosa di strano fu Publio Minucio, uno dei cuochi responsabili del magazzino delle provviste. Stava appunto verificando la quantità di carne affumicata stivata in uno degli horrea, quando con la coda dell’occhio notò un movimento alla sua destra e quello che vide gli fece lanciare un urlo che richiamò diversi dei suoi compagni.
– Minucio, cos’è successo?
– Ero qui a fare l’inventario delle scorte e mi sono accorto che il barile dell’acqua mi stava guardando.
Naturalmente queste parole sollevarono un coro di risate: Publio Minucio non era mai stato una cima, ma un’affermazione del genere superava persino la sua usuale ottusità.
– È inutile che mi prendiate in giro, so quello che ho visto.
– E cos’hai visto, Minucio? Il barile dell’acqua ti guardava e il pesce che abbiamo pescato stamattina ballava sul tavolo?
– Piantatela! Ho visto quattro occhi sporgere dall’orlo del barile dell’acqua; quattro occhietti del colore della brace che mi guardavano. Per forza ho urlato, al mio posto l’avreste fatto anche voi.
– D’accordo, andiamo a vedere questo barile.
Entrarono tutti nell’horreum ed esaminarono con cura il barile dell’acqua che, naturalmente, era un normalissimo barile, totalmente privo di occhi. Il povero Minucio sarebbe probabilmente diventato lo zimbello del campo come minimo per i prossimi dieci giorni, se non fosse che cominciarono a succedere altre cose strane: oggetti che improvvisamente non erano più dove erano stati lasciati, un miles che sosteneva che qualcuno gli aveva fatto uno stupido scherzo nascondendogli le caligae, strani rumori dove non avrebbe dovuto esserci nessuno, rapidi movimenti sempre e solo intravisti con la coda dell’occhio.
Dopo due giorni di questi fenomeni inspiegabili, anche il meno superstizioso dei milites era pronto a giurare che il castrum era infestato da larvae o da lemures, e tutti chiedevano a gran voce al trierarca che organizzasse un sacrificio per propiziarli.
Dominico non era molto convinto dell’idea, ma stava per cedere alle insistenze dell’equipaggio quando fu Arvind, il physiologo indiano, a svelare il mistero: – Eccoli là le vostre larvae e i vostri lemures! – Rise, indicando un gruppetto di tre buffi animaletti aggrappati a un palo di una delle tende: – Sono loro che rubacchiano in dispensa e nascondono le vostre cose.
Erano delle bestiole grandi all’incirca come un gatto, dal pelo marroncino chiaro e con lunghe zampette dalle dita prensili. Ma le caratteristiche più notevoli erano gli occhi, e la coda.
La coda era molto grossa e lunga il doppio del corpo, coperta di una folta pelliccia a bande bianche e nere alternate. Gli occhi erano grandi, quasi sproporzionati, di un arancio vivido e circondati da una mascherina di pelo nero che li faceva sembrare ancora più enormi; ma era lo sguardo furbo dietro di essi la cosa più impressionante, perché sembrava che l’animaletto capisse tutto quello che dicevi e ti stesse segretamente prendendo in giro.
Anche per rimediare alla brutta figura fatta mostrando una paura superstiziosa per eventi del tutto naturali e spiegabili, i milites presero a benvolere queste bestiole che, ormai, tutti chiamavano scherzosamente lemures. Non appena qualcuno cominciò a lanciare loro qualche avanzo di cibo, che fu prontamente acchiappato e divorato, i lemures da tre che erano diventarono rapidamente cinque, e poi otto, e poi quasi una ventina; sembravano essere sempre affamati e, qualsiasi cosa anche solo vagamente commestibile venisse lanciata loro, la prendevano, l’annusavano e la mangiavano.
Nei giorni successivi divenne evidente che nella vicina foresta dovevano esserci molti di questi branchi o famiglie di lemures. Non appena tra di loro si sparse la voce che questi buffi e lenti scimmioni a due zampe non erano pericolosi o aggressivi, ma anzi ti tiravano addosso del buon cibo, almeno sette gruppi, formati da una a due dozzine di lemures ciascuno, cominciarono a frequentare assiduamente il castrum e, in alcuni casi, ci si trasferirono proprio.
Non era quindi insolito vedere, la mattina prima dell’alba, una palla pelosa formata da otto o dieci animaletti dormire sopra una delle tende o vicino ai resti di uno dei fuochi sfruttando il tepore delle braci rimaste calde sotto la cenere.


Il tempo passava e i milites tagliavano legna nel bosco e cacciavano: c’erano giorni in cui la caccia era buona e parte delle prede venivano macellate e affumicate per rifornire di nuovo la nave; spesso invece la caccia era a malapena sufficiente per mettere insieme pranzo e cena.
Una decina di giorni dopo l’insediamento nel nuovo castrum Arvind fece una scoperta importante: c’era un tipo di palma, abbastanza comune nei terreni vicini alla spiaggia, che a volte aveva tra le foglie più alte dei grappoli di oggetti di colore marrone chiaro a forma di uovo, grandi all’incirca come la testa di un uomo.
Sulle prime aveva pensato che potessero essere nidi di qualche uccello mostruoso, simile magari allo struzzo gigante ma capace di volare, ma poi aveva trovato alcuni di questi oggetti caduti a terra ed era risultato chiaro che non si trattava di uova.
Il colore marroncino era dato da un rivestimento esterno, dello spessore di diversi pollici, di un materiale fibroso, simile a una corteccia spugnosa. Sotto questo involucro si trovava un sottile guscio di legno nero e durissimo che, a sua volta, racchiudeva una polpa bianca e dura, dal sapore dolce e speziato.
Non sapendo se questa polpa fosse effettivamente commestibile, Arvind provò a darla da mangiare ad alcuni dei lemures che si erano stabiliti vicino alla sua tenda e questi mostrarono di apprezzarla molto, e anche nei giorni successivi non mostrarono segni di avvelenamento o malessere. Anzi, non chiedevano altro che di mangiarne ancora.
Il bello di queste noci giganti era che sembrava che potessero conservarsi per un tempo indefinito senza andare a male, e quindi uno dei compiti dell’equipaggio divenne quello di cercare le palme con frutti maturi e raccoglierne il più possibile da aggiungere alle scorte alimentari della Inceptio.
In alcune occasioni le spedizioni di caccia furono particolarmente fortunate: nelle radure della foresta trovarono tre nidi di struzzi giganti e, appostandosi in attesa, riuscirono a prendere gli uccelli oltre alle loro uova; inoltre la caccia con le reti dava tutti i giorni una quantità limitata ma sicura di quaglie, pernici e altri simili uccelli di piccola taglia.
Ma fu dal mare che vennero le maggiori soddisfazioni: più di una volta mentre erano fuori a pesca sulle scialuppe, i milites incontrarono dei porci di mare, molto simili a quello già catturato vicino alle Insulae Anulares tanti mesi prima. La caccia al porco di mare divenne una delle fonti principali di carne affumicata.


Fu proprio in seguito a una di queste spedizioni in mare che Gibil si ricordò di una discussione cominciata con Arvind tanto tempo fa e interrotta dal tragico incidente con il serpente velenoso: – Arvind, ti ricordi quando abbiamo preso il nostro primo porco di mare e tu stavi studiando le sue ossa?
– Certo che me ne ricordo. Non avevo mai visto una bestia così strana in vita mia.
– Se ricordo bene in quell’occasione avevi cominciato a spiegarci una tua teoria sul “progetto” degli animali, ma siamo stati interrotti e non abbiamo mai ripreso il discorso.
– Sì, è vero. Ti dicevo che la funzione segue la forma; tutti gli animali a quattro zampe, e anche il nostro porco di mare che di zampe non ne ha nessuna, condividono quello che io chiamo un progetto comune. La forma e le posizioni reciproche delle ossa, dei muscoli e degli organi interni sono molto simili tra un animale e l’altro, anche se ci sono delle differenze più o meno grandi che distinguono le varie razze di bestie.
– Non capisco, come puoi dire che il progetto è lo stesso se poi gli animali sono tutti diversi tra di loro? Non mi dirai che un gatto e un bue sono uguali, vero?
– No, naturalmente non sono uguali. Ma le caratteristiche comuni sono più delle differenze; tu stesso hai notato che le ossa delle pinne del porco di mare sono fatte all’incirca come quelle di un mano e di un braccio umani.
– È vero, ma allora come spieghi il fatto che ci siano tante differenze tra un animale e l’altro se alla base sono simili?
– Cercherò di spiegarmi con un’analogia: pensa a un artigiano che realizza dei vasi. Farà dei vasi più grandi e dei vasi più piccoli; dei vasi con la base piatta, oppure concava o convessa; con un’ansa, due anse o nessuna; panciuti o cilindrici, decorati o lisci; e, parlando di decorazioni, non ci saranno due vasi uguali, ma ciascuno avrà rappresentate immagini diverse eppure potrai ancora dividerli tra quelli che riportano scene di caccia, figure mitologiche, gesta eroiche e così via. Ma hanno tutti in comune qualcosa e se tu ne vedessi uno diresti “Questo è un vaso”, non “Questo è un mattone”.
– Quindi tu pensi che esista una specie di idea platonica di “animale a quattro zampe” da cui derivano tutti i singoli animali reali? – Intervenne Aktis che si era fermato ad ascoltare le spiegazioni del physiologo.
– Qualcosa del genere. Anche se quella che tu chiami idea platonica potrebbe semplicemente essere nella mente del Demiurgo che ha creato tutti gli animali realizzando infinite variazioni su un progetto comune. Ha fatto i leoni forti e veloci nella corsa e con grandi artigli, e quindi i leoni si comportano da predatori, perché hanno le caratteristiche adatte per farlo; ha fatto i buoi e le pecore con uno stomaco capace di digerire l’erba, e quindi buoi e pecore sono erbivori; e ha fatto il porco di mare con pinne e coda adatti al nuoto al posto delle zampe e quindi lui vive in acqua. La funzione segue la forma: se hai una forma adatta a cacciare diventi un cacciatore, se hai una forma adatta a nuotare diventi un animale acquatico.
– Allora secondo te è per questo che ci sono tanti animali diversi, perché il Demiurgo è un artista che si è sbizzarrito a provare tante variazioni diverse?
– Esattamente. D’altra parte, se avesse davvero voluto creare gli animali diversi l’uno dall’altro, ciascuno per uno scopo o con una funzione precisa, avrebbe potuto fare molto meglio di così, Ad esempio, se vuoi fare un animale che corre molto veloce, perché limitarti a quattro zampe? Avrebbe potuto creare un cavallo con otto zampe, che sarebbe stato molto più veloce; eppure non esistono animali con otto zampe, a parte i ragni. Io credo che l’intenzione del Demiurgo non fosse di creare animali con particolari caratteristiche con uno scopo ben preciso, ma che questi siano solo il risultato di una serie di variazioni per così dire artistiche e che ciascuno di loro abbia di conseguenza trovato il luogo e il modo adatti a sfruttare al meglio le sue potenzialità.
– Ci penserò. – Concluse Gibil: – La tua è un’idea interessante, ma per qualche motivo non mi convince del tutto, mi sembra troppo aleatorio. Tu riduci tutto agli aspetti artistici della creazione, ma in questo modo privi il Demiurgo di ogni intenzionalità: che senso ha una creazione senza scopo?
– Non lo so, – ammise Arvind – ma non sono neanche sicuro che debba avere uno scopo. È possibile che siamo solo noi esseri umani ad attribuire uno scopo, per dare una ragione alla nostra vita, a un mondo che in realtà ha come unico fine la sua stessa esistenza.


Lentamente, ma con costanza, le provviste di cibo aumentavano. Alle Kalendae di Aprilis Dominico decise che potevano bastare per affrontare il viaggio attraverso Oceano in direzione della costa africana.
Venne fatto un ultimo rifornimento di acqua potabile, i barili e le provviste vennero trasferiti sulla Inceptio e immagazzinati nella stiva; all’alba del giorno successivo il campo venne smontato: le tende venero ripiegate e le scialuppe cominciarono a fare la spola tra la nave all’ancora e la spiaggia, da cui i milites si imbarcavano con le proprie sarcinae e con le ultime attrezzature rimaste.
Poco dopo mezzogiorno la Inceptio levò le ancore, uscì dal golfo e cominciò ad allontanarsi dalla costa di Oceanica puntando in direzione ovest-nordovest, dove sperava di trovare il più rapidamente possibile la costa africana.
Fu solo intorno all’ora nona che una ventina di lemures uscirono dalla stiva e cominciarono ad arrampicarsi sul sartiame e a curiosare dappertutto sulla nave.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Chaos Legion wants you!