Capitolo 6


Canaria, Idus Apr. 874 AUC

Diario del trierarca I. Tiberio Dominico, nave da esplorazione Inceptio.
Siamo di nuovo in vista dell’Insula Canaria e, per la terza volta, abbiamo percorso questa rotta senza incidenti significativi.
Nelle prime due occasioni però le Insulae Fortunatae erano un punto fermo: destinazione all’andata e punto di partenza per il ritorno del viaggio di collaudo; questa volta invece sono solo una breve tappa appena all’inizio di un viaggio molto più lungo.
Siamo di nuovo qui, ma adesso ci aspettano mesi e anni di navigazione in mari sconosciuti che costeggiano terre potenzialmente ostili; oltre questo punto saremo al di fuori dell’ecumene e dovremo far conto sulle sole nostre forze. Per fortuna il morale della truppa è alto, intraprendere una spedizione di questo tipo con un equipaggio scontento sarebbe un invito al disastro!
Durante la sosta a Tamusiga abbiamo acquisito un nuovo membro dell’equipaggio: Azrur è un mazace della Mauretania e, nonostante sia un peregrinus, parla un latino quasi perfetto. Ci è stato raccomandato come interprete in quanto, oltre al fatto che parla la lingua locale e quella dei nomadi del sud, pare che abbia il dono delle lingue e questo ci potrà sicuramente essere utile per comunicare con popoli barbari che non hanno mai avuto alcun contatto con greci e romani.
L’abbiamo quindi ingaggiato per la durata del viaggio, con una paga che gli permetterà, una volta ritornato in patria, di vivere comodamente per il resto dei suoi giorni. Naturalmente anche lui si rende conto che la probabilità di tornare non è alta, vista la natura del nostro viaggio, ma su questo punto ha mostrato un incrollabile fiducia e il massimo entusiasmo in questa missione.

– Nave! Una nave in vista!
Dominico si sporse oltre la balaustra del disco cercando di vedere la nave segnalata dalla vedetta. Dopo poco riuscì a individuare anche lui la piccola galea che, spuntata da dietro il promontorio di Canaria, puntava dritta verso di loro.
– Non è possibile, – commentò – non un’altra volta!
– Parrebbe proprio di sì, trierarca, – gli rispose imperturbabile Aktis – anche se naturalmente non possiamo sapere se sono gli stessi pirati dell’anno scorso. Anzi, sarebbe veramente strano se davvero lo fossero.


– Eccola laggiù. – Il comandante della nave pirata osservava soddisfatto la nuova preda che navigava tranquilla a circa un terzo di miglio da loro.
– Capo, – la voce dell’enorme etiope sembrava preoccupata – spero di sbagliare, ma quella nave ha una sagoma che mi ricorda qualcosa…
– Dèi dell’abisso! Di nuovo loro? – Il comandante dalla barba rossa sputò una serie di orrende imprecazioni: – Presto, invertiamo la rotta, stavolta siamo abbastanza lontani da poterci allontanare prima che ci raggiungano.


– Direi che ci hanno visti, trierarca, – la voce del pilus prior era impassibile come sempre – e a giudicare dalla loro reazione credo che anche loro ci abbiano riconosciuto.
– Sembra anche a me, Aktis, e questa volta siamo troppo lontani per pensare di inseguirli. – Dominico si rivolse al magister fabrum: – Tu che ne dici, Caledonio, pensi che siano in portata della ballista di prua?
– Credo proprio di sì, trierarca. – Rispose l’altro, affrettandosi verso il casseretto di prua.
La grossa ballista sputò un bolzone lungo tre cubiti, un palo di legno di quattro pollici di diametro con la testa rinforzata in ferro; nonostante la distanza, il proiettile colpì in pieno la fiancata della nave pirata, aprendo un largo squarcio.
Dal suo posto d’osservazione Dominico vide la nave nemica oscillare paurosamente: prima a destra per effetto diretto del colpo, e poi di ritorno a sinistra. Nel far questo imbarcò tanta acqua dalla falla aperta dal bolzone che diventò ingovernabile e naufragò rapidamente spezzandosi in due.


Il secondo era riuscito ad aggrapparsi a una tavola galleggiante e il comandante nuotava poco più avanti abbracciato al remo del timone.
– Capo, – la voce del gigantesco etiope grondava sarcasmo – se non perdiamo questa abitudine di attaccare le triremi, la nostra prossima nave potremmo anche affondarcela da soli. Minor rischio e stesso risultato…


L’Inceptio era di nuovo ormeggiata al molo del porto di Aniaso, ma questa volta era solo per una breve sosta: sarebbero stati sufficienti un paio di giorni al massimo per caricare provviste e acqua, e poi sarebbero ripartiti in direzione sud, verso l’ignoto.
Il physiologo Arvind si dimostrò molto contento del ritorno della nave e sembrava aver dimenticato la brutta esperienza del mal di mare: un anno di permanenza su quella noiosa isoletta l’aveva reso addirittura ansioso di partire per esplorare le nuove terre del sud.
Durante il periodo trascorso lì aveva accumulato una quantità incredibile di campioni: piante essiccate, frutti, semi, radici, piccoli animali simili a lucertole seccati al sole, animali impagliati e penne e piumaggi di svariati tipi di uccelli.
– E poi, – disse a Dominico – ci sono anche i gusci di cheles che ho raccolto. Sono solo quattro, ma sono molto ingombranti.
– Cosa sono i cheles? – Chiese Caledonio che era insieme a loro sul disco.
– Hai presenti le testudines? Stessa cosa.
Dominico si rifiutò di caricare le tre grandi casse di campioni sulla nave: – È inutile che ce le portiamo in giro per il mondo occupando spazio prezioso. Lasciamole qui e prendiamo accordi perché vengano trasportate a Olisipo con una nave mercantile. – Arvind non era molto contento all’idea di separarsi dai suoi tesori, ma dovette rassegnarsi e accettare la decisione del trierarca.
Mentre gli scaricatori erano impegnati a caricare e stivare le provviste per il viaggio, il centurione Aktis e l’interprete Azrur si avvicinarono a Dominico che osservava queste attività appoggiato alla balaustra del disco: – Sono un po’ preoccupato per quello che ci aspetta nel prossimo tratto del viaggio, trierarca.
– Di cosa si tratta, centurione?
– Azrur mi ha raccontato quello che sa del territorio a sud di Tamusiga: se le sue informazioni sono corrette, e non vedo motivo di dubitarne, il deserto a sud della Mauretania potrebbe essere troppo esteso per riuscire ad attraversarlo.
– Anche a me non piace l’idea di navigare costeggiando un deserto, ma non vedo che alternative abbiamo: se vogliamo proseguire verso sud non abbiamo altra scelta che seguire la costa, deserto o meno.
– Proseguire è facile, trierarca, il problema è arrivare vivi dall’altra parte. – Intervenne Azrur: – Le carovane di cammellieri imazighen impiegano centocinquanta giorni partendo da Tamusiga per arrivare al grande fiume e, da quello che mi dice Aktis, noi non possiamo trasportare abbastanza acqua e viveri per un tragitto così lungo.
– Immagino che anche le carovane di cammelli debbano mangiare e bere, – rispose ironicamente Dominico – quindi in questo deserto di acqua ce ne deve pur essere e, se c’è acqua, ci sono fiumi e i fiumi prima o poi arrivano al mare.
– Temo di doverti contraddire, trierarca, evidentemente tu non conosci bene gli imazighen e i loro cammelli: sono capaci di viaggiare anche per duecento miglia in aperto deserto con la sola acqua che portano con sé; e nel deserto non ci sono fiumi né torrenti.
– E allora dove la trovano l’acqua?
– Pozzi. – Fu la laconica risposta del mazace: – Qua e là nel deserto ci sono dei luoghi in cui l’acqua sgorga dal sottosuolo. Intorno a questi stagni o pozzi naturali si sono formate delle oasi di palme e, in alcuni casi, dei piccoli villaggi.
– Non potremmo approfittare anche noi di questi pozzi, allora? – Chiese dubbioso Aktis.
– No, centurione. Tanto per cominciare la maggior parte delle oasi si trova nell’interno, molto lontane dal mare; gli imazighen le conoscono, e sanno come arrivare dall’una all’altra, ma per uno straniero sarebbe assolutamente impossibile trovarle. Non ci sono strade, non ci sono indicazioni, non ci sono neanche montagne degne di questo nome da usare come punti di riferimento. E non ci sono fiumi che arrivino al mare: ogni tanto un temporale porta un po’ d’acqua che riempie i tisengai, i torrenti del deserto; ma l’acqua viene presto assorbita dal terreno sabbioso e non arriva al mare. Tutta la costa è assolutamente arida e priva di vegetazione.
– Però tu hai parlato di un grande fiume. Sai dove si trova e come si chiama? – Chiese ancora Dominico.
– Non so come si chiami né se ha un nome, i carovanieri lo chiamano semplicemente asif, il fiume. Scorre molto a sud di Tamusiga, centocinquanta giorni di marcia, e segna il limite del tivririn, il deserto di sabbia. Gli uomini del deserto dicono che al di là dell’asif ricomincino le terre verdi.
– Centocinquanta giorni di marcia, – meditò Aktis – dalle due alle tremila miglia. Una bella distesa di sabbia!
– Eh sì, – concordò Dominico – con vento favorevole la Inceptio potrebbe farcela in meno di venti giorni, ma in caso contrario potrebbe volerci più di un mese.
– E la nave – gli ricordò Aktis – può portare provviste per al massimo trenta giorni. E non si può pensare di razionarle, se gli uomini devono remare.
– Quindi ce la potremmo forse fare, ma non ci rimarrebbe margine per un eventuale imprevisto: una tempesta che ci costringa a fermarci, una prolungata bonaccia o venti contrari che ci obblighino ad andare a remi, e resteremmo senza acqua e cibo in mezzo a questo terribile deserto. – Dominico era davvero preoccupato: – È proprio un brutto dilemma: praticamente non siamo ancora partiti e già dobbiamo affrontare una scelta che potrebbe significare la morte per tutti noi. Non è un bell’auspicio per la spedizione.
– Se permetti, trierarca, forse ho un’idea. – Azzardò Aktis: – Sarà un po’ costosa e comporterà un certo ritardo, ma ci potrebbe mettere al riparo da brutte sorprese.
– Il costo non è un problema, abbiamo mano libera per l’acquisto dell’equipaggiamento e delle scorte; sentiamo la tua idea, se può aumentare le nostre possibilità di attraversare incolumi questo deserto ne varrà sicuramente il costo.
– Beh, in realtà la soluzione è semplice: se non possiamo caricare abbastanza provviste per attraversare questo tivririn, come lo chiama Azrur, dobbiamo rifornirci di nuovo a metà strada.
– Sei impazzito Aktis? Come possiamo rifornirci a metà strada in un deserto? Ti aspetti forse di trovare un castrum legionario con gli horrea ben forniti?
– No, trierarca, non sono impazzito, non mi aspetto di trovare un castrum in mezzo al deserto. Quello che sto proponendo è di costruirne uno noi.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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