7 – Ur


Eridu, 5411 aC

Hanno marciato per quasi metà della notte, Utu e gli altri guerrieri del suo clan. Sono partiti dal villaggio di Ur, quando la luna quasi piena era già alta nel cielo, oltre la metà del suo corso, e l’hanno seguita fino al momento in cui è tramontata.
Sono in una ventina ed sono qui per razziare il bestiame della fattoria; hanno percorso i quindici chilometri dal loro villaggio di notte, in modo da non essere avvistati fino all’ultimo momento: ultimamente è diventato difficile compiere razzie a Eridu, perché il dio Iskur che Scaglia la Folgore ha organizzato i contadini ed è in grado di fare arrivare l’allarme alla città al primo avvistamento di nemici.
– Fermiamoci, e fate silenzio! – Erano arrivati a un centinaio di passi dalla fattoria, un’ombra scura appena visibile contro la debole luce della luna che stava tramontando davanti a loro: – Aspetteremo qui le prime luci del giorno.
Appena ad oriente il cielo comincia a schiarire, il gruppo si prepara; sono tutti armati, con asce di pietra dal lungo manico e lunghe lance con la punta d’osso lavorato.
– Laggiù, quella grande casa; se attacchiamo in silenzio e rapidamente possiamo sorprenderli nel sonno. – A destra della fattoria si intravede il recinto dove è custodito il gregge di pecore, l’obiettivo della loro spedizione. Utu dà gli ultimi ordini: – Dumuz, Suen e Lugal, voi entrerete con me per uccidere quelli che dormono nella casa, mentre gli altri gireranno intorno e si occuperanno delle pecore. E state attenti ai cani.
Il gruppo principale arriva al perimetro recintato e i cani, sentendo l’odore degli estranei, si mettono ad abbaiare furiosamente: sono in quattro, grossi e pericolosi, ma non possono fare niente contro le lance dei guerrieri di Ur; dopo pochi secondi sono tutti a terra, morti, mentre il gregge si agita preoccupato ma non può fuggire dalla robusta recinzione.
Gli uomini entrano nel recinto; hanno con sé delle corde e le usano per legare le zampe alle pecore: legano tra loro le zampe anteriori e poi, con un tratto di corda più lungo le collegano alle posteriori. In questo modo ciascun uomo può portare una pecora in spalla, tenendo le mani libere per maneggiare le armi.
In venti minuti sono tutti pronti, ciascuno con una bestia legata in spalla, e cominciano a guardare preoccupati in direzione della casa: dov’è finito Utu con i suoi, perché non sono ancora qui?


Mentre gli altri si dirigono al recinto, Utu e i tre uomini rimasti con lui entrano nella fattoria, armi in pugno, sperando di trovarne gli abitanti ancora addormentati. Non sono così fortunati.
La struttura è una grande capanna rettangolare senza divisioni interne, di circa sei metri per tre, con il tetto di balle di paglia sostenuto da pali di legno e le pareti costituite da spessi graticci di giunchi rivestiti dentro e fuori di argilla seccata al sole. L’unica porta è alta e larga, chiusa da una tenda di pelli di pecora; un foro al centro del tetto permette l’uscita del fumo e durante il giorno lascia entrare un po’ di luce: in questo momento, con il cielo che sta appena schiarendosi, è solo una chiazza pallida in mezzo all’oscurità del soffitto.
Quando Utu entra, gli abitanti si stanno svegliando: tre donne stanno già armeggiando intorno al focolare per ravvivare il fuoco e, al debole chiarore prodotto da questo, gli invasori vedono che oltre alle donne ci sono tre uomini adulti, una coppia di vecchi e almeno quattro bambini.
Al loro ingresso uno degli uomini è già in piedi e si avventa contro di loro, con in mano un’ascia di pietra, ma viene immediatamente intercettato e abbattuto da Utu e Lugal. Questo però ha dato il tempo agli altri due di raccogliere le loro armi; lo scontro è breve, e la superiorità numerica degli attaccanti, unita all’effetto sorpresa, ne determina rapidamente l’esito: Dumuz è seriamente ferito a un braccio, gli abitanti sono tutti morti, tranne due delle donne; i bambini sono stati ammazzati per ultimi, sistematicamente.
– Suen, fai qualcosa per il braccio di Dumuz prima che muoia dissanguato. – Ordina Utu: – Tu invece Lugal occupati delle donne, se stanno zitte le porteremo con noi se urlano ammazzale. Abbiamo già fatto fin troppo rumore.
Utu perquisisce rapidamente l’abitazione alla ricerca di oggetti preziosi, o che comunque valga la pena portare via. Ha già preso un paio di coltelli con lama di pietra, un amuleto scolpito in osso e una giara di coccio piena di cereali, quando scopre il tesoro più prezioso: due otri pieni di birra: – Ah, questi da soli valgono tutta la fatica che abbiamo fatto! Guardate qui, ho trovato la bevanda degli dèi! – Continua a frugare sperando di trovarne di più, ma alla fine si deve convincere che non ce n’è altra.
Dumuz non è in grado di combattere o portare con sé pesi, ma può camminare, caricano il bottino in spalla alle due prigioniere e si preparano a uscire e raggiungere gli altri: Utu e Suen davanti, le donne in mezzo e Lugal con Dumuz ferito in retroguardia.


Sono passati centoventi anni dal Disastro e la cittadina di Eridu continua a prosperare sotto il governo di Enki e della sua famiglia, la quale continua lentamente a crescere: tra nascite e adozioni di orfani sacrificati al “dio” il nuovo Popolo conta già ventisette individui.
Tra loro spiccano, oltre ovviamente a Ninsar Signora delle Piante e Enki Padrone delle Acque, i loro figli: dopo Naannadoredisa Figlio della Luna erano nate Uttudoredisa la Tessitrice e Nintidoredisa la Guaritrice; Uttu aveva insegnato agli Unsangiga l’uso del telaio verticale e le tecniche per alternare i fili della trama e dell’ordito in modo da ottenere tessuti decorati da disegni complessi e multicolori, mentre Ninti aveva cominciato a istruirli sull’uso delle piante medicinali e sulle norme elementari di igiene: era un suo grande successo personale il fatto che, nonostante la crescita della popolazione di Eridu, negli ultimi settanta anni ci fossero state solo due epidemie, entrambe brevi e con perdite molto contenute.
Ma a causa dell’intensificarsi delle scorrerie di predoni provenienti dalle tribù vicine, sta acquistando sempre più preminenza la figura di Iskurlaresumi che Scaglia la Folgore, il primo figlio di Naanna e Ningal, destinato a essere sia il più grande tra gli eroi di Eridu che la causa della rovina del proprio Popolo.
Era stato stato durante l’infanzia e l’adolescenza di Iskur che le razzie delle tribù del nord si erano intensificate; quelle che inizialmente erano considerate solo una grave seccatura erano aumentate in frequenza e danni apportati fino a divenire una vera minaccia. Bande di alcune decine di uomini armati arrivavano, uccidevano, saccheggiavano, rapivano le donne e se ne andavano così in fretta da renderne difficile l’inseguimento. Colpivano sempre nelle zone più periferiche, apparentemente senza uno schema preciso, e sempre più spesso riuscivano a fuggire con il bottino.
Sotto la guida di Enki e successivamente di suo nipote Iskur, erano state organizzate delle postazioni di guardia nelle zone di confine, trentasei lungo tutto il perimetro esterno, a distanza di circa mezzo chilometro l’una dall’altra. Ogni guarnigione era costituita da una torretta di legno alta cinque o sei metri con una piattaforma di osservazione, uomini che facevano a turno la guardia giorno e notte e un falò sempre pronto per essere acceso.
Ai primi segni di un attacco notturno gli uomini di guardia dovevano accendere il fuoco e utilizzarlo per segnalare il pericolo, se l’attacco avveniva di giorno avrebbero invece srotolato un lungo drappo tinto di rosso. Sul tetto dell’ultimo piano della Casa di Enki, proprio al centro di Eridu, un’altra postazione era sempre presidiata da quattro vedette, pronte a dare l’allarme alla guarnigione che sarebbe accorsa a respingere gli attaccanti: trentasei uomini, con a capo Iskur che Scaglia la Folgore in persona.
Era stato lo stesso Iskur ad avere l’intuizione sull’importanza della guerra psicologica per scoraggiare i razziatori. Quando guidava la sua squadra alla difesa di una fattoria sotto attacco, era una figura imponente e terrificante: un alto elmo con maschera, tutto in cuoio battuto e rivestito in lamina d’oro, una corazza sempre in cuoio dorato e diversi ornamenti alle braccia. Invece di portare un’ascia o una lancia, la sua arma principale era il timore che lo precedeva; quello, e la folgore.
Basandosi su un’idea di suo padre Naanna, aveva fatto realizzare all’Osservatore un’arma allo stesso tempo maneggevole, micidiale e terrificante. In un’orbita stabile intorno alla Terra, nel punto di Lagrange L4, l’Osservatore aveva costruito un sistema di specchi parabolici del diametro di circa quaranta metri, in grado di concentrare la luce proveniente dal sole in un fascio del diametro di non più di un paio di centimetri. Mediante un portale, che Iskur poteva puntare e attivare a piacere, questo fascio poteva venire rapidamente diretto su un qualsiasi bersaglio.
L’effetto per chi lo vedeva in azione, era un lampo di luce incredibilmente potente, della durata di una frazione di secondo, che scaturiva dalle mani di Iskur e colpiva anche a grande distanza; per la vittima designata, invece, l’effetto era la morte immediata: più di un megawatt di potenza, concentrata in pochi centimetri di diametro, più efficace di un proiettile di grosso calibro.
Così Iskurlaresumi era diventato Iskur che Scaglia la Folgore, e tutte le tribù nel raggio di decine di chilometri avevano imparato a temerlo.


Il sole non è ancora sorto nel cielo che sta appena cominciando a rischiarare, quando Iskur viene informato dalla vedetta della Casa: – Iskur che Scaglia la Folgore, le sentinelle della torre di osservazione diciassette hanno appena dato l’allarme.
Le sentinelle della torre erano state messe in allarme dall’abbaiare dei cani e dai belati delle pecore spaventate e, con grande prontezza, stavano già accendendo il fuoco di segnalazione prima ancora di riuscire a vedere i nemici, ancora nascosti dall’oscurità.
Iskur si sveglia immediatamente: – Diciassette? A est-nordest… Probabilmente stanno cercando di rubare le pecore di Urtu e Nernia. Sveglia tutta la squadra, partiamo subito!
In meno di dieci minuti Iskur è già in movimento, alla testa della sua guarnigione di trentasei guerrieri bene armati, affrettandosi verso il luogo dell’incursione che è a poco più di due chilometri di distanza.
Arrivano in vista dei nemici quando il sole si è appena sollevato sopra l’orizzonte; i predoni hanno da poco finito di caricarsi in spalla le pecore e sembrano pronti a scappare. Iskur arriva all’altezza della fattoria, ad appena un centinaio di metri dal gruppo dei razziatori: – Sono appena una quindicina, preparatevi ad inseguirli. –
Solleva entrambe le braccia: la mano sinistra aperta con il palmo in avanti, la mano destra a stringere il polso sinistro, pronuncia una parola: – Marduk!
Succede tutto in meno di cinque secondi: al comando di Iskur un lampo intollerabilmente luminoso parte dalle sue mani e colpisce Haya, uno dei predoni; il suo fianco destro letteralmente esplode, mentre i suoi vestiti prendono fuoco, insieme a quelli dei due uomini vicini a lui; tutti i presenti, tanto gli invasori quanto i difensori, restano temporaneamente abbagliati dalla luce improvvisa; in quel preciso istante la tenda di pelle che copre la porta della grande capanna viene aperta.
Utu e Lugal escono per primi dalla porta, la loro visione ancora intatta a causa della relativa oscurità all’interno della casa. Utu vede Iskur che Scaglia la Folgore davanti a sé a neanche tre passi di distanza e reagisce d’istinto, senza fermarsi a pensare: alza il braccio e scaglia la pesante lancia di legno dall’affilatissima punta di corno lavorato.
Iskur cade a terra, con la gola trapassata da parte a parte, annaspando con le mani e cercando senza riuscirci di estrarre la lancia; i soldati della guarnigione guardano il suo corpo coperto di sangue e ormai senza vita, il corpo del loro dio, abbattuto come un animale da macello.
Nonostante siano in maggioranza numerica in rapporto di quasi due a uno, fanno dietrofront e corrono come un sol uomo verso la città; i predoni li rincorrono per un centinaio di passi con le armi in pugno, poi lasciano perdere e tornano indietro.
Intanto Utu, Lugal e Suen stanno spogliando il cadavere di Iskur: l’armatura dorata, gli ornamenti e gli amuleti. Con due precisi colpi d’ascia Utu taglia il collo e prende la testa del dio, ancora coronata dall’elmo dorato; torna nella capanna a prendere una cesta di vimini e la usa per caricarsi in spalla il suo trofeo.
Abbandonando il cadavere di Haya, l’uomo abbattuto dalla folgore, partono rapidamente verso est per tornare all’accampamento invernale della loro tribù, a Ur.


La morte di Iskurlaresumi segnò definitivamente la rovina del Popolo, perché insieme agli altri gioielli, all’armatura e alle armi, i razziatori avevano preso anche il comunicatore.
Questo non sarebbe stato di per sé un problema così grave se non fosse che a seguito di un certo numero di incidenti imbarazzanti con gli Unsangiga, i quali venivano sempre terrorizzati quando sentivano quella voce che usciva dal nulla, Iskur aveva ordinato perentoriamente all’Osservatore di non mettersi mai in contatto con loro se non gli fosse stato chiesto mediante il comunicatore stesso.
E così la morte di Iskur fece perdere al Popolo l’unico strumento che permettesse di contattare l’Osservatore.
Enki, Ninsar e i loro figli e nipoti cercarono per tutte le loro vite di recuperarlo, ma era come cercare un ago in un pagliaio: nei dintorni di Eridu si muovevano decine di tribù, dediti sostanzialmente alla pastorizia nomade, e ritrovare gli uomini che avevano ucciso Iskur si rivelò un’impresa impossibile, per non parlare della difficoltà, anche se l’avessero individuata, di ottenere la restituzione di una preziosa reliquia come quella.
Qualche anno dopo vennero a sapere che nel villaggio di Urukh, dall’altra parte del Grande Fiume e oltre cinquanta chilometri a nord avevano costruito un tempio dedicato a lui, Iskur che Scaglia la Folgore, intorno alla reliquia più sacra di tutte: la testa mummificata dello stesso Iskur con ancora indosso l’elmo dorato.
Enki e Naanna si recarono a Urukh come “pellegrini”, per cercare di scoprire se anche il comunicatore si trovasse lì, ma nessuno ne sapeva niente: chissà in quali mani era finito durante la spartizione del bottino della spedizione in cui Iskur aveva trovato la morte.
E loro non erano più immortali!
Avendo perso i contatti con l’Osservatore non avevano più accesso alle tecnologie mediche del Popolo, ormai disponibili solo sulla Luna. Lentamente ma inesorabilmente cominciarono ad invecchiare come tutti gli esseri umani, cosa fino ad allora inconcepibile per un membro del Popolo. Enki morì in un incidente di caccia ventisette anni dopo Iskur, e Ninsar lo seguì poco dopo, stroncata da una polmonite.
Ad uno ad uno i loro figli e nipoti invecchiarono e morirono; cinquant’anni dopo la morte di Iskur, non c’era più nessuno dei discendenti del Popolo capace di parlare l’antica lingua.
Due generazioni dopo anche il ricordo del Popolo era andato perduto, rimaneva solo il ricordo degli antichi dèi e di come avevano creato la città di Eridu. Col passare del tempo anche il ricordo svanì e si trasformò in leggenda.
Il tempo continuò a scorrere.

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