Capitolo 15


Fenni

Dopo aver perso un mese a percorrere le rive di questo malaugurato tratto di Oceano, procediamo per appena un centinaio di miglia verso ovest per scoprire che la costa gira di nuovo verso nord, attraversando un passaggio largo solo quattro o cinque miglia.
Naturalmente, pensiamo, è meglio andare verso nord che verso occidente: infatti continuando verso ovest saremmo tornati al punto di partenza, mentre una rotta verso settentrione ci potrà portare prima o poi a un passaggio verso l’oriente e la nostra destinazione.
Questo pensiamo, e questo serva a mostrarci quanto i nostri desideri e le nostre speranze siano inutili se contrastano i disegni delle Moire. In undici giorni di navigazione percorriamo circa seicento miglia verso nord, in un mare quasi costantemente nascosto dalla nebbia, rallentati dalla necessità di controllare con cura i fondali insidiosi e sempre sperando di poter portare la rotta verso oriente, finché arriviamo alla foce di un fiume largo e rapido, ideale per rinnovare le scorte d’acqua. La Viatrix risale di un paio di miglia il corso del fiume e viene quindi ancorata vicino alla riva destra per il tempo necessario alle operazioni di lavaggio dei barili e il loro riempimento. Io e i miei assistenti scendiamo a terra, accompagnati da una scorta di una decina di milites, allo scopo di rilevare con precisione la nostra posizione.
Già da tempo sapevo che ci trovavamo molto a nord: le notti diventano sempre più corte, cosa normale con l’avvicinarsi dell’estate, ma questo fenomeno perfettamente prevedibile si verifica qui nelle terre iperboree in una maniera e con un’intensità che non avevo mai visto prima.
Qui, alla foce di questo fiume nordico, sembra che la notte sia stata abolita! Vediamo il sole tramontare quasi a nord e il cielo cominciare a scurire lentamente, come se il giorno fosse riluttante a finire e poi, invece del crepuscolo della sera che trascolora in nero il cielo, l’aurora dalle rosee dita comincia nuovamente ad illuminare l’orizzonte, poco più a oriente del luogo in cui il sole è appena scomparso.
Secondo le mie misurazioni questo assurdo crepuscolo che si confonde con l’alba è durato meno di un’ora astrale, cioè l’equivalente di una singola ora nei giorni all’inizio della primavera. Nell’impossibilità di vedere le stelle in questo cielo che non diventa mai scuro, ci siamo limitati a misurare l’altezza del sole sull’orizzonte a mezzogiorno e, effettuati i necessari calcoli e correzioni, ho dedotto che siamo a circa sessantasei gradi a nord della linea aequinoctialis, quasi tremila miglia a nord di Alexandria.
Ma se pensavamo che Fortuna ci avesse giocato il suo ultimo scherzo ci sbagliavamo di grosso!
Appena lasciata la foce del fiume, troviamo che la costa si dirige di nuovo a ovest e poi riprende inesorabilmente a curvare in direzione sud.
Quasi increduli proseguiamo per scoprire che questa costa ci sta portando indietro ancora una volta. Dopo altri tredici giorni di navigazione, sempre ostacolati dalla nebbia e adesso anche dal vento contrario, ci ritroviamo in quello stesso stretto in cui ci eravamo inoltrati venticinque giorni prima.


Il morale dell’equipaggio è sceso a livelli preoccupanti, in questa spedizione che assomiglia sempre più al ritorno di Ulisse e durante la quale, nonostante ogni tentativo di dirigerci verso oriente, veniamo inesorabilmente respinti nella direzione opposta da un Fato crudele.
Qualcuno comincia a mormorare che forse questa nave è stata maledetta dagli dèi e che, come appunto accadde ai compagni di Ulisse, moriremo tutti ad uno ad uno senza poter raggiungere la nostra meta. Il fatto che ormai da diversi giorni sia rimasto da mangiare solo pesce e un po’ di carne salata non aiuta certo a risollevare gli animi.
Circa duecento miglia dopo aver passato (per la seconda volta!) lo stretto, incontriamo una stretta isola che dista solo un paio di miglia dalla costa ma che si estende in lunghezza quasi a perdita d’occhio. Clearco decide di tenere l’isola sulla destra, così da non infilarsi nello stretto canale che la separa dalla terraferma, e dopo aver percorso quasi settanta miglia di costa vediamo un villaggio di discrete dimensioni, vicino alla foce di un piccolo corso d’acqua.
Il grano e l’orzo acquistato dai burgundi sono ormai un lontano ricordo e gli uomini sono stufi marci di pesce e carne secca; la gente che abita qui avrà sicuramente un po’ di cibarie decenti da venderci, e noi siamo disposti a pagarle bene. Clearco fa quindi accostare la Viatrix ed entriamo di qualche centinaio di passi nella foce del fiume, fermandoci proprio davanti al villaggio.
Segimondo e Clearco si affacciano al parapetto per trattare con gli abitanti del villaggio, ma le cose non vanno come avevamo sperato. Da riva, una dozzina o poco più di guerrieri armati ci grida frasi per me incomprensibili ma dal tono inequivocabilmente minaccioso.
Mentre Segimondo cerca di parlare con i nativi mescolando parole di tutte le lingue germaniche che conosce, una dozzina di milites si affiancano a lui, pila in pugno, evidentemente preoccupati dal tono delle voci che arrivano da terra.
Questa esibizione di forza, quale viene evidentemente percepita dai germani, provoca il disastro: dalla riva cominciano a tirare frecce nella nostra direzione mentre i milites colti di sorpresa non hanno il tempo di ripararsi con gli scuta. Un miles viene ferito abbastanza seriamente alla spalla, un altro viene ucciso da una freccia che lo colpisce in un occhio.
L’uccisione di uno dei loro compagni fa scattare una reazione automatica nei milites: i remiges della Viatrix tornano improvvisamente a essere una cohors legionaria. Pochi istanti dopo l’inizio dell’attacco, sessanta e più pila vengono lanciati contemporaneamente dal fianco della nave e sono seguiti immediatamente dopo da un secondo lancio altrettanto compatto.
I pochi guerrieri superstiti corrono verso il villaggio, a cercare rinforzi pensa logicamente Clearco. Quindi il trierarca, da generale competente qual è, decide che se bisogna combattere è meglio farlo da una posizione di forza: approfittando della ritirata del nemico le tre centuriae sbarcano rapidamente utilizzando le passerelle e si dispongono a cohors serrata sulla riva del fiume. Poi, a un ordine del pilus prior Quinto Flavio marciano in triplice fila verso il villaggio.
La resistenza dei germani è incredibilmente debole, per un villaggio di queste dimensioni: Flavio si aspettava di dover fronteggiare cento o duecento guerrieri, mentre invece a opporsi ai romani ci sono solo due dozzine di guerrieri armati di asce da guerra e di spade corte. Più che di un combattimento di tratta di un massacro, il gruppo dei guerrieri germani viene sopraffatto in un unico attacco frontale e i nemici sterminati dalla foresta di gladia che escono dagli spazi tra gli scuta legionari.
Naturalmente, dopo essere stati attaccati senza provocazione, non si parla più di commerciare; rotta la resistenza dei locali comincia il saccheggio, con tutto quello che ne consegue. Probabilmente la maggior parte delle donne era riuscita a scappare verso l’interno dell’isola durante lo scontro armato, ma molte altre erano rimaste nelle capanne. I nostri milites passano sistematicamente il villaggio al setaccio, razziando tutto quello che possono: sacchi di grano e di orzo, formaggio, qualche oggetto di metallo prezioso, bestiame, donne.
Tutto il bottino viene radunato sulla spiaggia davanti alla nave e, mentre i sacchi vengono caricati a bordo, le donne vengono stuprate lì, sulla riva del fiume. Clearco non ha nessuna intenzione di impedirlo: è la legge della guerra, le donne fanno parte del legittimo bottino del vincitore. E poi i milites non vedono ormai una donna dai bordelli di Burdigala più di tre mesi fa, lasciamoli divertire un po’, servirà a risollevare il morale dell’equipaggio.
Poco fa paragonavo il nostro viaggio al ritorno di Ulisse e dei suoi compagni dopo la guerra di Troia e a tutte le peripezie che dovettero subire mentre un dio adirato continuava a portarli in direzione opposta a dove avrebbero voluto andare. Qual è invece il dio che continua a mandarmi questi presagi? E perché lo fa in modo talmente oscuro che io non riesca mai a comprenderli per tempo?
Ed ecco che mentre il nostro equipaggio si attarda sulla spiaggia a godersi le spoglie del saccheggio, proprio come gli itacensi sulla spiaggia di Ismarus, la catastrofe si avvicina: i superstiti sfuggiti al saccheggio hanno evidentemente raggiunto gli uomini nell’interno dell’isola e questi stanno rapidamente tornando per vendicare l’affronto.
È una banda di circa centocinquanta guerrieri, tutti pesantemente armati anche se scarsamente organizzati. Per nostra fortuna questi nordici Kikones ci arrivano addosso urlando e facendo un gran rumore: è solo per questo motivo che molti dei nostri milites hanno il tempo di liberarsi da quello che stavano facendo e recuperare le armi prima dell’impatto con l’orda.
Nonostante questo preavviso che permette ai nostri di organizzare un minimo di difesa, lo scontro è violento: il lancio dei pila abbatte molti guerrieri nemici e la legione regge l’urto iniziale con il muro di scudi; i gladia mietono vittime ma anche le asce germaniche fanno pagare il loro tributo di sangue. Alla fine i nostri riescono a tornare a bordo della Viatrix, ma il bilancio della giornata è pesante: sul campo restano i cadaveri di un centinaio di guerrieri germani, ma anche quaranta dei nostri milites sono caduti e una trentina sono feriti più o meno gravemente.
Dal mio punto di osservazione privilegiato sul disco della nave posso osservare bene lo scontro, e quando la Viatrix è di nuovo in viaggio verso sud riesco a parlare con Segimondo di un particolare che mi ha meravigliato e incuriosito: durante il combattimento ho notato la presenza tra i germani di alcuni guerrieri, meno di una dozzina, con sulle spalle a mo’ di lorica una pelle d’orso, con la testa portata in guisa di elmo; mi sembra quasi di vedere altrettanti Herakles con le spalle coperte dalle spoglie del leone di Nemea. Questi guerrieri vestiti d’orso, per quanto pochi, combattevano con un coraggio e un vigore incredibili, tanto che potrei giurare di averne visto uno uccidere il miles che lo ha appena trafitto con il gladio e poi continuare a combattere!
– Quelli che hai visto sono i berserkiri, – mi risponde il centurione germanico – guerrieri terribili, consacrati al dio Vodan. Si dice che i berserkiri possano essere uccisi ma non fermati: anche se vengono feriti gravemente continuano a combattere fino alla morte; altri dicono che non possano essere feriti dal ferro o dal fuoco e che siano del tutto invulnerabili finché il loro dio non li chiama a sé.
Vodan? – Chiedo ancora: – Non credo di aver mai sentito nominare questo dio.
Vodan della furia in battaglia e dell’estasi dei poeti, del panico che paralizza e degli incantesimi. È il dio principalmente onorato dai guerrieri suiones, la gente che abita queste terre; pare che a Obsala ci sia un grande tempio dedicato a lui e ad altri dei minori, in cui si celebrano sacrifici terribili in suo onore.
– Intendi dire sacrifici umani?
– Anche. Si dice che quando a primavera si celebra la grande festa di Vodan degli impiccati, gli alberi del bosco sacro di Obsala vengano ornati dei corpi di animali e di nemici catturati, che vengono appesi lì a morire per la maggior gloria di Vodan.
– E dove si trova questo luogo, Obsala?
– Non so esattamente dove sia, dovrebbe essere da qualche parte nel sud di Scatinavia. Comunque, greco, – aggiunge Segimondo col tono di chi vuole chiudere il discorso – dovunque si trovi questo tempio, ti assicuro che non è un posto in cui vorresti andare.


Dopo il disastro al villaggio dei suiones riprendiamo la navigazione verso sud. È ormai evidente, e verrà confermato nei giorni successivi, che stiamo percorrendo la costa orientale di Scatinavia che, lungi dall’essere un’isola come era sempre stato ritenuto, è in realtà una penisola collegata alla terra dei fenni.
La conferma definitiva la abbiamo al terzo giorno delle Kalendae di Sextilis, quando ci ritroviamo a navigare verso occidente attraverso lo stretto che separa la penisola di Cimbria da Scatinavia: per quasi tre mesi, mentre credevamo di solcare Oceano diretti verso oriente, abbiamo in realtà circumnavigato un mare interno, grande all’incirca come il Pontus Euxinus.
Ed è proprio nel riattraversare questi stretti che mi ritorna alla mente l’impressione fugace che avevo avuto all’andata e l’analogia che avevo visto tra questi e gli stretti della Propontis. Mi rendo conto solo ora che avrei dovuto riconoscere in quella visione un presagio, e che forse davvero un dio stava cercando di dirmi che quello in cui stavamo per entrare non era Oceano, ma una versione nordica dell’Euxinus.
Ma è sempre fin troppo facile giudicare i presagi con il senno di poi: la verità è che quando gli dèi ci mandano questi segni imperscrutabili lo fanno per metterci alla prova, così che solo i più saggi tra gli uomini possano trarne davvero profitto.
Oppure, forse, lo fanno per divertimento, per ridere di noi.

© Paolo Sinigaglia 2013-2017 – È proibita la riproduzione anche parziale

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