Preparativi


Ma io ti stavo raccontando una storia, che comincia in una mattina di primavera del 2028; non riesco a ricordare la data esatta, so solo che era un giovedì, e questo è buffo perché dovrebbe essere una delle date più importanti della mia vita.

Ero al lavoro in officina, nel cortile dietro la nostra casa, e stavo finendo di rimontare la distribuzione di una Nissan Micra che avevo appena riparato quando Marta, la figlia diciassettenne di Franca, si è affacciata alla porta per chiamarmi: – Fra cinque minuti si va in tavola, genitore cinque, muoviti. – Un’occhiata all’orologio sulla parete mi ha confermato che effettivamente era quasi l’una, ho abbandonato la Micra con il cofano aperto e sono andato in bagno a ripulirmi per andare a pranzo con la famiglia.

Ho finito di sciacquarmi mani e faccia, mi sono cambiato la camicia e sono uscito chiudendo a chiave, come sempre, la porta dell’officina. Attraversando il cortile per tornare in casa mi sono accorto che avevo il fiato corto, come se avessi fatto una corsa; a passare tutto il giorno in officina i miei quarantotto anni stavano evidentemente cominciando a farsi sentire, forse avrei dovuto tenermi un po’ più in esercizio ma c’erano sempre troppe cose da fare.

Quando sono arrivato erano già tutti a tavola, quel giorno avevano cucinato Mario e Michele e la terrina di spaghetti aveva un’aria particolarmente invitante: direi che si erano cimentati di nuovo in quell’ottimo sugo ai quattro formaggi con noci e anacardi.

Mentre mangiavamo si chiacchierava di tutto e di nulla; a un certo punto Cesare cominciò a raccontare un sogno inquietante che aveva fatto la notte precedente: – Eravamo in cinque all’ingresso di un locale, non so se era un ristorante o una pizzeria, e questa cameriera ci stava dicendo che non c’era posto e, gentilissima, ci indicava che avremmo potuto andare in un altro posto – non mi ricordo più il nome ma sono sicuro che l’aveva detto – e che se le dicevamo quanti eravamo telefonava per prenotare…

– Un po’ strana come offerta, – intervenne Franca – erano due locali dello stesso proprietario?

– Non ne ho idea, ma nel sogno sembrava una cosa assolutamente normale. E Gianni le risponde che siamo in sette, perché Paolo e Carlo sono già andati avanti e ci raggiungeranno là. Sul momento non mi sono meravigliato dell’incongruenza – ma sapete come vanno le cose nei sogni – ma com’è possibile che siano già andati avanti se fino a un attimo prima non sapevamo ancora dove andavamo?

– Beh, l’hai appena detto tu, sono cose che capitano nei sogni, non puoi aspettarti la coerenza.

– Già. E poi mi sono svegliato e mi sono reso conto improvvisamente di una cosa: Gianni l’avete conosciuto anche voi – è morto l’anno scorso di cancro – ma Carlo e Paolo non li avete mai conosciuti: il primo è morto quasi vent’anni fa di overdose, l’altro dieci anni fa per un infarto…

Eravamo tutti troppo imbarazzati per commentare. Cesare rimase lì qualche secondo a meditarci sopra: – Quello che sto cercando di ricordarmi da stamattina è il nome del locale: dov’è questo posto dove Carlo e Paolo ci hanno preceduti?

– Per caso qualcosa che ha a che fare con un vulcano? – Azzardò Marta.

– Non lo so, non riesco a ricordarlo. Però effettivamente un Vulcano di Birra ci sarebbe stato bene.

La conversazione aveva preso una piega strana, e forse era meglio chiuderla lì. Mi sono alzato con l’intenzione di dare una mano a sparecchiare la tavola, ma ho dovuto aggrapparmi allo schienale della sedia per un improvviso attacco di vertigini: mi sentivo come se il pavimento stesse ondeggiando lentamente sotto i miei piedi e avevo l’impressione che se avessi lasciato andare quell’unico punto fermo, la sedia, non sarei riuscito a restare in piedi; non avevo mai provato una sensazione del genere da quell’unica volta che mi ero ubriacato sul serio. Poi… penso di essere svenuto, perché la cosa successiva che ricordo era che mi trovavo sdraiato sul divano della sala.

C’era Monica di fianco a me e mi stava parlando: – Ti senti meglio adesso? Hai avuto un collasso e sei cascato per terra; spero che sia una cosa da niente ma potrebbe essere il sintomo di un infarto, quindi abbiamo già chiamato un’ambulanza. – Io ascoltavo, ma mi sembrava che stesse parlando di qualcun altro.

– Resta qui sdraiato e non agitarti, arriveranno prestissimo… – Agitarmi? Mi sentivo calmissimo, come se stessi guardando la scena dall’esterno: Monica che nonostante le parole rassicuranti mi guardava con un’espressione terribilmente preoccupata, gli altri dietro di lei che si tenevano a rispettosa distanza con l’aria di non sapere cosa fare, il soffitto del soggiorno che conoscevo perfettamente ma che visto da questa angolazione insolita sembrava un luogo sconosciuto.

Monica continuava a parlare ma io non capivo cosa stesse dicendo. Non è che non riuscissi a sentire le parole, anche se c’era questo strano rumore di fondo, una specie di rombo attutito – Wooom, wooom – che si ripeteva ogni pochi secondi e che non capivo da dove venisse; le parole le sentivo chiaramente, era solo che non riuscivo a dare un senso alle frasi.

Ma tutto questo non aveva nessuna importanza: ero lì, sdraiato sul divano della nostra casa, presto sarebbero arrivati i medici che avrebbero sicuramente saputo cosa fare; non avevo nulla di cui preoccuparmi.

Anzi, adesso quel fastidioso rumore era finalmente cessato, ora potevo sentire molto più chiaramente le parole di Monica.

Però era buffo, adesso non riuscivo più a capire neanche le parole, erano solo dei suoni.

Poi tutto divenne nero.

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