Sicuramente qualche lettore commenterà che un titolo migliore per questo articolo avrebbe potuto essere “37 Modi Poco Saggi In Cui Puoi Usare Le Parole”, o “37 Modi In Cui l’Uso Sub-ottimale Delle Categorie Può Avere Effetti Negativi Sulla Tua Cognizione”.
Ma una delle lezioni più importanti di questa lista gigantesca è che dire “Non c’è possibilità che la mia scelta di X sia ‘sbagliata’” è in pratica praticamente sempre un errore, qualsiasi cosa dica la teoria. Tu puoi sempre avere torto. Anche quando è teoricamente impossibile sbagliare, puoi ancora avere torto. Non esiste una carta Uscite-Gratis-di-Prigione qualsiasi cosa tu faccia. È la vita.
Inoltre, posso definire la parola “sbagliato” in modo che significhi quello che voglio — non è che una parola possa essere sbagliata.
Personalmente, considero abbastanza giustificato l’uso della parola “sbagliato” quando:
- Una parola semplicemente manca di connessione con la realtà. Socrate è un borogovo? Sì o no? (La parabola della spada.)
- Il tuo argomento, se fosse valido, forzerebbe la realtà a essere diversa scegliendo una definizione differente per una parola. Socrate è un uomo e gli uomini, per definizione, sono mortali. Quindi se definissi gli uomini come immortali, Socrate vivrebbe per sempre? (La parabola della cicuta.)
- Cerchi di stabilire la verità di una qualsiasi affermazione empirica “per definizione”. Socrate è un uomo e gli uomini, per definizione, sono mortali. È quindi una verità logica la predizione empirica che Socrate morirà se beve la cicuta? Sembra proprio che ci siano mondi logicamente possibili, non auto contraddittori, in cui Socrate non muore — ad esempio in cui è immune alla cicuta per una particolarità della sua biochimica. Le verità logiche sono vere in tutti i mondi possibili, e quindi non possono mai dirti in quale mondo possibile tu vivi — e qualunque cosa possa essere stabilita “per definizione” è una verità logica. (La parabola della cicuta.)
- Attacchi inconsciamente un’etichetta convenzionale a qualcosa, senza effettivamente usare la definizione verbale che hai appena dato. Tu sai perfettamente che Bob è un “uomo” anche se, per la tua definizione, non puoi mai dire che Bob è un “uomo” senza prima aver osservato che è mortale. (La parabola della cicuta.)
- L’atto di etichettare qualcosa con una parola nasconde una discutibile inferenza induttiva. Se gli ultimi 11 oggetti a forma di uovo che ho estratto erano blu, e gli ultimi 8 cubi erano rossi, è semplice induzione prevedere che la regola continuerà a valere in futuro. Ma se chiami ile uova blu “blovi” e i cubi rossi “rubi”, puoi allungare la mano nel barile, sentire un oggetto a forma di uovo e pensare “Oh, un blovo.” (Parole come inferenze nascoste.)
- Cerchi di definire una parola usando altre parole, a loro volta definite da parole ancora più astratte, senza essere capace di indicare un esempio. “Cos’è rosso?” “Rosso è un colore.” “Cos’è un colore?” “È una proprietà delle cose.” “Cos’è una cosa? Cos’è una proprietà?” Non ti viene mai in mente di indicare una mela e un cartello stradale di stop. (Estensione e intensione.)
- L’estensione non corrisponde all’intensione. Noi non siamo coscientemente consapevoli dell’identificazione di una luce rossa nel cielo come “Marte”, cosa che probabilmente avviene indipendentemente dal tentativo di definire “Marte” come “Dio della guerra”. (Estensione e intensione.)
- La tua categoria verbale cattura solo una piccola frazione delle caratteristiche condivise dalla categoria, ma cerchi di ragionare come se le comprendesse tutte. Quando i filosofi dell’Accademia di Platone sostennero che la miglior definizione di uomo fosse “bipede implume”, si dice che Diogene il Cinico esibisse un pollo spennato dichiarando “Ecco l’uomo di Platone”. I platonisti cambiarono prontamente la loro definizione in “bipede implume dalle unghie larghe”. (Gruppi di similarità.)
- Cerchi di trattare l’appartenenza a una categoria come un tutto-o-niente, ignorando l’esistenza di sottogruppi più o meno tipici. Anatre e pinguini sono uccelli meno tipici che piccioni e pettirossi. Un interessante esperimento ha mostrato che i soggetti ritenevano più probabile che su un’isola una malattia si diffondesse da pettirossi ad anatre che viceversa. (Tipicità e somiglianza asimmetrica.)
- Una definizione verbale funziona abbastanza bene nella pratica per indicare il gruppo di similarità voluto, ma ti ostini a cercare eccezioni. Non tutti gli umani hanno dieci dita, o portano abiti, o usano un linguaggio; ma se cerchi un gruppo empirico di cose che condividono queste caratteristiche, ottieni abbastanza informazioni da far sì che l’occasionale umano con nove dita non ti ingannerà. (La struttura a gruppi dello spazio delle cose.)
- Ti domandi se una cosa “è” o “non è” membro di una categoria, ma non sai definire la vera domanda a cui vuoi una risposta. Cos’è un “uomo”? Barney il Baby Boy è un “uomo”? La risposta “corretta” può dipendere in maniera considerevole dal fatto che la domanda a cui vuoi davvero una risposta sia “Posso dare da bere la cicuta a Barney?” o “Barney sarebbe un buon marito?” (Distinzioni mascherate.)
- Consideri le categorie gerarchiche percepite intuitivamente come l’unico modo corretto di interpretare il mondo, senza renderti conto che sono possibili altre forme di inferenza statistica anche se il tuo cervello non le usa. È molto più facile per un umano notare se un oggetto è un “blovo” o un “rubo” piuttosto che per un umano, notare che gli oggetti rossi non sono luminosi, ma che gli oggetti rossi pellicciosi hanno tutte le altre caratteristiche dei blovi. Altri algoritmi statistici funzionano in modo diverso. (Categorie neurali.)
- Tratti le categorie come se fossero manna caduta dal Regno Platonico, invece che inferenze implementate in un cervello reale. Gli antichi filosofi dicevano “Socrate è un uomo”, non “Il mio cervello classifica percettivamente Socrate come corrispondente al concetto di ‘umano'”. (Come si percepisce un algoritmo dall’interno.)
- Continui a discutere sull’appartenenza a una categoria, anche dopo aver eliminato tutte le domande che potrebbero dipendere da un’inferenza basata sulla categorizzazione. Dopo aver osservato che un oggetto è a forma di uovo, blu, pelliccioso, flessibile, opaco, luminoso e contiene palladio, che senso ha chiedersi ancora se “È un blovo?”. Ma se la rete neurale nel tuo cervello che compie la categorizzazione contiene un (metaforico) nodo centrale corrispondente all’inferenza di blovità, può ancora sembrare che ci sia ancora una domanda senza risposta. (Come si percepisce un algoritmo dall’interno.)
- Permetti a un argomento di scivolare in una discussione sulle definizioni, anche se non è quello che volevi discutere in origine. Se, prima che cominciasse una discussione sul “suono” prodotto da un albero che cade in una foresta deserta, avessi chiesto ai due futuri contendenti se pensavano che “suono” sia meglio definito come “vibrazione acustica” o “esperienza uditiva”, probabilmente ti avrebbero detto di lanciare una moneta. Solo dopo l’inizio della discussione la definizione della parola assume un valore politico. (Litigare sulle definizioni.)
- Credi che una parola abbia un significato, come proprietà della parola stessa, invece che essere un’etichetta che il tuo cervello associa a un particolare concetto. Quando qualcuno grida, “Yikes! Una tigre!”, l’evoluzione non favorirebbe un organismo che pensasse, “Umm… Ho appena sentito le sillabe ‘Ti’ e ‘Gre’ che gli stimati membri della mia tribù associano con il loro analogo interiore del mio concetto tigre, ed è più probabile che lo dicano se vedono un oggetto che categorizzano come aaargh! CRUNCH CRUNCH aiuto, mi ha preso un braccio CRUNCH GULP”. Quindi il cervello prende una scorciatoia, e ci sembra che la tigricità sia una proprietà dell’etichetta stessa. La gente discute sul significato corretto di un’etichetta come “suono”. (Sentire il significato.)
- Continuate a discutere sul significato di una parola, anche se entrambe le parti capiscono perfettamente cosa l’altro sta cercando di dire. La capacità umana di associare etichette ai concetti è uno strumento per la comunicazione. Quando la gente vuole comunicare, è difficile impedirglielo; se non abbiamo un linguaggio comune, disegneremo figure sulla sabbia. Quando ciascuno capisce cosa c’è nella mente dell’altro il gioco è fatto. (L’argomento dell’uso comune.)
- Nel bel mezzo di una discussione empirica o morale, tiri fuori il dizionario. I curatori dei dizionari sono storici dell’uso, non legislatori della lingua. Se la definizione corrente contiene un problema — se “Marte” è definito come Dio della guerra, o un “delfino” è definito come un tipo di pesce, o i “Negri” sono definiti come una categoria a parte di esseri umani, il dizionario rifletterà l’errore corrente. (L’argomento dell’uso comune.)
- Nel bel mezzo di qualsiasi discussione, tiri fuori il dizionario. Seriamente, cosa ti fa pensare che il curatore di un dizionario sia un’autorità sul fatto che “ateismo” sia una “religione” o cosa? Se c’è in ballo un qualsiasi interesse sostanziale, pensi veramente che il curatore del dizionario abbia accesso a una saggezza superiore in grado di risolvere l’argomento? (L’argomento dell’uso comune.)
- Sfidi l’uso comune senza motivo, rendendo gratuitamente difficile per gli altri comprendere quello che dici. Veloce solleva plutonio, con panini senza maniglia. (L’argomento dell’uso comune.)
- Rinomini le categorie in maniera complessa, per creare l’illusione di un’inferenza. “Umano” è definito come “bipede implume mortale”? Allora scrivi: “Tutti i [bipede implume mortale] sono mortali; Socrate è un [bipede implume mortale]; quindi, Socrate è mortale”. Sembra molto meno significativo in questo modo, vero? (Etichette vuote.)
- Ti perdi in una discussione che potresti evitare semplicemente non usando una certa parola. Se Albert e Barry non fossero autorizzati a usare la parola “suono”, Albert dovrebbe dire “Un albero che cade in una foresta deserta genera vibrazioni acustiche”, e Barry direbbe “Un albero che cade in una foresta deserta non produce nessuna esperienza uditiva”. Quando una parola costituisce un problema, la soluzione più semplice è di eliminare la parola e i suoi sinonimi. (Parole tabù.)
- L’esistenza di una parola specifica ti impedisce di vedere i dettagli della cosa a cui stai cercando di pensare. Cosa succede effettivamente nelle scuole, quando smetti di chiamarla “educazione”? Cos’è un diploma, quando smetti di chiamarlo “diploma”? Quando la moneta cade come “testa”, qual è il suo orientamento radiale? Cosa vuol dire “vero”, se non puoi usare i termini “accurato”, “corretto”, “rappresenta”, “riflette”, “semantico”, “credere”, “conoscenza”, “mappa”, “reale” o altri termini semplici? (Sostituisci il simbolo con la sostanza.)
- Hai una sola parola, ma a questa corrispondono due o più cose-nella-realtà, così tutti i fatti su di loro vengono ammucchiati in un singolo contenitore mentale indifferenziato. È parte del normale lavoro dell’investigatore osservare che Carol ieri sera era vestita di rosso, o che ha i capelli neri; ed è parte del normale lavoro dell’investigatore domandarsi se per caso Carol si tinge i capelli. Ma ci vuole un investigatore più sottile per domandarsi se ci sono due Carol, così che la Carol che veste di rosso non è la stessa Carol che ha i capelli neri. (Fallacie di compressione.)
- Vedi schemi dove non esistono, estraendo altre caratteristiche dalle definizioni anche quando non ci sono somiglianze lungo quell’asse. In Giappone si pensa che le persone con gruppo sanguigno A siano aperte e creative, quelle del gruppo B allegre e spontanee, quelle di tipo 0 socievoli e gradevoli e quelle di tipo AB fredde e controllate. (Categorizzare ha delle conseguenze.)
- Cerchi di contrabbandare connotazioni in una parola, basandoti su una definizione che non include quelle connotazioni. Un “wiggin” è definito nel dizionario come una persona con occhi verdi e capelli neri. La parola “wiggin” è anche caricata della connotazione di qualcuno che commette crimini e lancia cuccioli di scoiattolo con la fionda, ma questo non è nel dizionario. Così tu indichi qualcuno e dici: “Occhi verdi? Capelli neri? Vedi, te l’ho detto che è un wiggin! Scommetto sta per rubare l’argenteria”. (Insinuare connotazioni.)
- Sostieni che “X, per definizione, è un Y!”. In tali occasioni stai quasi certamente cercando di insinuare una connotazione di Y non c’era nella definizione originale. Definisci “umano” come “bipede implume”, indichi Socrate e dici “Non ha penne — ha due gambe — dev’essere umano!” Ma quello che realmente ti interessa è qualcos’altro, come ad esempio la mortalità. Se quello che era in discussione fosse stato il numero di gambe di Socrate, ti risponderebbero “Cosa vuoi dire con il fatto che Socrate ha due gambe? È proprio quello di cui stavamo discutendo!” (Litigare sulle definizioni.)
- Sostieni che “i P, per definizione, sono dei Q!” Se vedi Socrate in un campo insieme ad alcuni biologi, che raccolgono erbe che potrebbero conferire resistenza alla cicuta, non ha senso sostenere che “Gli uomini, per definizione, sono mortali!”. Normalmente se senti la necessità di rinforzare il concetto insistendo che qualcosa è vero “per definizione” è perché ci sono informazioni che mettono in dubbio l’inferenza di default. (Litigare sulle definizioni.)
- Cerchi di stabilire l’appartenenza a un raggruppamento empirico “per definizione”. Non sentiresti la necessità di sostenere che “l’Induismo, per definizione, è una religione!” perché, beh, certo che l’Induismo è una religione. Non è solo una religione “per definizione”, è proprio davvero una religione. L’ateismo non assomiglia al concetto centrale del raggruppamento “religione”, quindi se non fosse che l’ateismo è una religione per definizione, potresti pensare che l’ateismo non sia una religione. Questo è il motivo per cui devi schiacciare l’opposizione facendo notare che “l’ateismo è una religione” è vero per definizione, perché non lo è in nessun altro senso. (Litigare sulle definizioni.)
- La tua definizione segna un confine intorno a cose che non si raggruppano bene insieme. Puoi sostenere, se vuoi, che stai definendo la parola “pesce” per indicare salmone, guppy, squalo, delfino e trota, ma non le meduse o le alghe. Puoi sostenere, se vuoi, che questa è semplicemente una lista, e non è possibile che una lista sia “sbagliata”. Oppure puoi smettere di giocare a fare il furbo, e ammettere che ti sei sbagliato e che i delfini non sono pesci. (Dove porre il limite?)
- Usi una parola corta per qualcosa che non devi descrivere spesso, o una parola lunga per qualcosa che devi utilizzare spesso. Questo può rendere inefficiente il tuo modo di pensare, o addirittura portare a un’erronea applicazione del rasoio di Occam, se la tua mente pensa che frasi più brevi siano “più semplici”. Cosa sembra più plausibile, “Dio ha fatto un miracolo” o “Un’entità soprannaturale che ha creato l’universo, ha temporaneamente sospeso le leggi della fisica”? (Entropia e codifiche brevi.)
- Tracci un confine intorno a un volume di spazio la cui densità non è superiore alla norma, il che significa che alla parola associata non corrisponde nessuna inferenza Bayesiana. Poiché le persone con occhi verdi non hanno maggiore probabilità di avere i capelli neri, e viceversa, e non condividono altre caratteristiche comuni, a cosa serve avere una parola per “wiggin”? (Mutua informazione e densità nello spazio delle cose.)
- Tracci un confine inutilmente complesso, senza avere una ragione per farlo. L’atto di definire una parola che indica tutti gli esseri umani esclusi i neri, sembra in qualche modo sospetto. Se non hai motivi per definire quel confine particolare, cercare di creare arbitrariamente una parola in quel volume è come un investigatore che dicesse: “Beh, non ho il minimo straccio di indizio in un senso o nell’altro su chi possa aver assassinato questi orfani… Ma avete preso in considerazione John Q. Wiffleheim come sospetto?” (Spazio dei concetti superesponenziale e parole semplici .)
- Usi la categorizzazione per fare inferenze su proprietà che non hanno l’appropriata struttura empirica, cioè indipendenza condizionale data la conoscenza della classe, pensando che un approccio Bayesiano naive dia una buona approssimazione. Non esiste che io cerchi di riassumere questo punto. Vai a rileggere l’articolo. (Indipendenza condizionale e approccio Bayesiano naive.)
- Pensi che le parole siano come piccoli simboli LISP nella tua mente, invece che etichette che fungono da appiglio per pilotare pennelli mentali complessi che dipingono immagini dettagliate nel tuo spazio di lavoro sensoriale. Visualizza una “lampadina triangolare”. Cosa vedi? (Parole come manici del pennello mentale.)
- Usi una parola che ha diversi significati in luoghi diversi, come se significasse la stessa cosa in ciascuna occasione, eventualmente creando l’impressione di qualcosa proteiforme e mutevole. “Martin ha detto a Bob che l’edificio è alla sua sinistra”. Ma “sinistra” è una parola funzionale che assume valori differenti in base a una variabile presa dal contesto esterno dipendente dal parlante. Si intende la “sinistra” di chi, di Bob o di Martin? (Fallacie delle domande variabili.)
- Pensi che le definizioni non possano essere “sbagliate”, o che “Posso definire una parola come preferisco!” Questo atteggiamento ti insegna a difendere con indignazione le tue azioni passate, invece di fare attenzione alle loro conseguenze, o correggere i tuoi errori. (37 Modi In Cui l’Uso Sub-ottimale Delle Categorie Può Avere Effetti Negativi Sulla Tua Cognizione.)
Tutto quello che fai nella tua mente ha un effetto, e il tuo cervello corre avanti inconsciamente senza la tua supervisione.
Dire “Le parole sono arbitrarie; posso definire una parola come preferisco” ha più o meno lo stesso senso di guidare una macchina sul ghiaccio sottile, con l’acceleratore a tavoletta, e dire: “Guardando il volante non mi sembra che una posizione angolare sia particolare — quindi posso girare il volante come mi pare”.
Se stai cercando di andare da qualche parte, o anche solo tentando di sopravvivere, faresti meglio a cominciare a fare attenzione alle tre o sei dozzine di criteri di ottimalità che controllano il tuo uso di parole, definizioni, categorie, confini, etichette e concetti.